di Enrico Di Pasquale
Quando nel 2011 la Fondazione Leone Moressa pubblicò il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, la frase “l’immigrazione è una componente strutturale della società e dell’economia in Italia e in Europa” riceveva già un ampio consenso tra gli studiosi del fenomeno.
Tuttavia, in pochi potevano immaginare il peso che avrebbero avuto i fenomeni migratori all’interno del dibattito pubblico negli anni a venire. Nell’ultimo decennio l’immigrazione è diventata uno dei temi centrali dell’agenda politica, ma ancora se ne sente parlare in termini di “emergenza”. Il X Rapporto è l’occasione per tracciare un bilancio, cercando di capire cosa è cambiato e cosa sta cambiando, sia per quanto riguarda la popolazione straniera in Italia sia le politiche migratorie (o “non” politiche, come vedremo).
La Fondazione Leone Moressa è un istituto di ricerca nato e tuttora sostenuto dalla CGIA di Mestre, specializzato nello studio dell’economia dell’immigrazione con un approccio economico e tecnico sui fenomeni migratori, che consente di uscire dall’ideologia del “pro” o “contro” ad ogni costo.
Nel 2010 gli stranieri residenti in Italia erano 3,6 milioni, pari al 6,2% della popolazione. Oggi la presenza straniera (regolare) è aumentata di oltre il 40% e rappresenta l’8,8% della popolazione totale. Sebbene in continuo aumento, nell’ultimo decennio la popolazione straniera è cresciuta ad un ritmo inferiore rispetto al decennio precedente (nel 2002 gli stranieri erano appena 1,3 milioni, il 2,4% della popolazione).
In particolare, il numero di occupati stranieri è aumentato ad un ritmo molto basso, rimanendo nell’ultimo decennio sempre compreso tra 2 e 2,5 milioni. Ciò significa che la causa principale dell’aumento di residenti stranieri non sono stati gli ingressi per lavoro, quanto invece altri fattori: specificatamente i nuovi nati e i ricongiungimenti familiari.
Possiamo infatti affermare che, dal punto di vista dell’economia dell’immigrazione, il fatto principale di questo decennio sia rappresentato dalla drastica riduzione degli arrivi per motivi di lavoro (permessi di soggiorno dei cittadini non comunitari), passati da circa 350 mila nel 2010 a circa 11 mila nel 2018 (-97%).
La natura di questo calo è sostanzialmente politica: nel quadro normativo attuale, gli ingressi dei cittadini non comunitari sono decisi annualmente (c.d. “decreti flussi”); a partire dal 2011, a causa della crisi economica, si è ritenuto che l’economia italiana non avesse più bisogno di manodopera straniera, nella speranza che quei posti di lavoro venissero occupati dagli italiani disoccupati.
Si trattava però di una convinzione errata, come dimostrato dai fatti: non solo il numero di disoccupati italiani non è diminuito (avendo essi caratteristiche diverse rispetto alle mansioni richieste dal mercato), invece è aumentato il numero di lavoratori stranieri irregolari (con conseguenze sociali quali lo sfruttamento e il caporalato). Inoltre, la chiusura dei canali di ingresso legali ha contribuito a favorire gli ingressi irregolari, poi confluiti nel sistema di accoglienza attraverso la richiesta d’asilo.
Osservando l’andamento dei permessi di soggiorno negli ultimi dieci anni, dunque, abbiamo assistito ad un calo complessivo dei nuovi ingressi e ad un cambiamento nella tipologia degli stessi: non più lavoratori, ma soprattutto richiedenti asilo e familiari di chi un lavoro lo aveva trovato cinque io dieci anni prima.
Questo ci porta all’altro grande fenomeno di questo decennio, ovvero gli sbarchi di migranti nel Mediterraneo. Già nel 2011 si parlava di “emergenza” riferendosi ai 64 mila giunti via mare in Italia, principalmente a seguito delle cosiddette Primavere Arabe. Quel numero sarebbe quasi triplicato da lì a pochi anni: 170 mila nel 2014 e 180 mila nel 2016. Il fenomeno, poi ridotto nei numeri a seguito degli accordi tra Italia e Libia del 2017, ha caratterizzato non solo il dibattito pubblico sull’immigrazione ma anche la gestione delle politiche migratorie e di integrazione.
E’ indubbio, infatti, che l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media si sia focalizzata molto più sulle tematiche dell’accoglienza che sulle politiche migratorie vere e proprie (canali di ingresso legali) e sulle politiche di integrazione di coloro che erano già presenti in Italia. I dati evidenziano la diversa dimensione dei due gruppi: basti pensare che, ad oggi, i migranti accolti nelle strutture di accoglienza sono circa 80 mila, uno ogni 67 stranieri regolarmente residenti.
Va inoltre ricordato che i Permessi di Soggiorno non coincidono con i nuovi arrivi di stranieri. Innanzitutto i Permessi si riferiscono solo ai non comunitari. Inoltre, in molti casi si tratta di “conversioni”, ovvero di rilascio a persone già presenti sul territorio.
Infine, negli ultimi 30 anni, oltre ai “Decreti Flussi”, il principale strumento di politica migratoria è stata la “sanatoria”, ovvero una regolarizzazione “a posteriori” di persone già presenti (irregolarmente) sul territorio. Nel 2020 questo strumento è stato utilizzato nuovamente, limitatamente al lavoro domestico e all’agricoltura. Sono pervenute complessivamente 220 mila domande. In totale, dal 1987 ad oggi le “sanatorie” hanno coinvolto oltre 2 milioni di stranieri.
Questo dimostra la gestione “emergenziale” dell’immigrazione in Italia: basti pensare che la legge di riferimento è del 2002 (Bossi-Fini), sorta in un momento storico molto diverso da quello attuale.
Gli stranieri presenti oggi in Italia sono molto diversi rispetto allo stereotipo più diffuso, legato alle immagini dei barconi (prevalentemente uomini di origine africana). Le principali nazionalità, invece, non sono quelle coinvolte negli sbarchi via mare (Nigeria, Tunisia, Ghana, Somalia, Etiopia), ma comunità ormai radicate in Italia da oltre 15 anni: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina. Peraltro, il 50% degli stranieri viene da un Paese europeo e il 30% da un Paese Ue. Vi è, inoltre, una prevalenza di donne (52%), ovviamente più accentuata tra i Paesi dell’Est Europa.
La popolazione straniera in Italia ha caratteristiche molto diverse rispetto alla popolazione autoctona, a partire dalla struttura demografica. Tra gli stranieri, solo il 4,9% ha più di 65 anni, mentre tra gli Italiani un quarto della popolazione. L’età media, di conseguenza, è 34,8 anni per gli stranieri e 46,2 per gli italiani (oltre 11 anni di differenza).
Questo, come vedremo, ha forti ripercussioni economiche e fiscali.
L’edizione 2020 del Rapporto intende dunque fornire una riflessione su questi ultimi dieci anni, analizzando come è cambiata l’immigrazione nel nostro Paese e come essa ha contribuito a trasformare l’Italia da un punto di vista economico e sociale. Oggi, dopo dieci anni, possiamo affermare non solo che “l’immigrazione è una componente strutturale della società e dell’economia italiana ed europea” ma anche che questo fenomeno sembra ormai irreversibile, specie in un contesto di crisi demografica che coinvolge tutta l’Europa ed in particolare l’Italia.
Un altro fenomeno rilevante è quello delle naturalizzazioni di stranieri, dopo 10 anni di residenza continuativa in Italia. Negli ultimi 10 anni sono quasi 1,2 milioni gli stranieri naturalizzati. Alcuni di questi sono emigrati, mentre buona parte è ancora in Italia (aggiungendoli ai 5,3 milioni, otteniamo una popolazione “di origine straniera” molto più ampia).
Inoltre, vi è circa 1 milione di minori stranieri nati in Italia, di cui circa 800 mila con i requisiti previsti dalla riforma dello ius soli (bocciata nella scorsa legislatura).
Come ben approfondito nelle ultime due edizioni del Rapporto, la situazione demografica italiana è drammatica. Solo per citare alcuni dati, dal 1977 il tasso di fecondità è sceso al di sotto dei 2 figli per donna (soglia del ricambio generazionale) e dal 1993 il saldo tra nati e morti è quasi ininterrottamente negativo. E, ancora, la quota di over 60 ha raggiunto nel 2019 il 27,9% della popolazione, molto vicina al 30% considerato la soglia del “non ritorno demografico”.
Inoltre, anche per i giovani attualmente presenti, l’Italia presenta delle criticità più forti rispetto agli altri paesi europei: il tasso di occupazione nella fascia tra 25 e 29 anni è il più basso d’Europa (56,3%, media Ue28 76,0%), mentre registriamo il più alto tasso di giovani NEET nella stessa fascia d’età (29,7%, media Ue28 16,6%).
Nei primi anni 2000 la componente straniera ha rallentato questo declino, ma ora anche quel contributo è diminuito. Le famiglie straniere fanno meno figli e, naturalmente, invecchiano. A meno di radicali riforme di sistema, l’invecchiamento demografico e le scarse opportunità per i giovani sembrano fenomeni ineluttabili.
Questo, oltre alla ripresa economica del post-COVID, rappresenta una grossa sfida per il nostro Paese, non solo demografica ma anche sociale ed economica.
Naturalmente l’immigrazione non può essere “la soluzione” a questi problemi, ma non è neanche “il problema”. Se provassimo ad immaginare l’Italia fra altri dieci anni, difficilmente potremmo pensare ad un Paese senza stranieri: più facile, invece, immaginare un Paese con più interazioni e sinergie tra persone di diversa provenienza, come peraltro già avviene nei Paesi che prima di noi hanno avuto esperienza migratoria.
Secondo uno studio OCSE del 2014, l’impatto economico dell’immigrazione sui paesi di arrivo è positivo da tre punti di vista: la crescita economica (nuova forza lavoro e capitale umano), il mercato del lavoro (riequilibrato grazie all’immissione di forza lavoro in settori in cui era carente) e la spesa pubblica (data la concentrazione nelle fasce d’età lavorative, il saldo contributivo e fiscale è generalmente positivo).
Il Rapporto sull’economia dell’immigrazione, da dieci anni, fotografa esattamente questa situazione per l’Italia: il contributo degli immigrati all’economia nazionale si compone di un saldo fiscale sostanzialmente positivo e di un’incidenza sul PIL stimata intorno al 9%. Il fatto che la popolazione straniera sia mediamente più giovane di quella italiana (tenuto conto che l’Italia è tra i paesi più anziani al mondo) fa sì che l’impatto sulla spesa pubblica sia molto basso, specie su due voci molto consistenti come sanità e pensioni.
Infine, il nuovo decennio si è aperto con un’emergenza sanitaria senza precedenti, che inevitabilmente avrà ripercussioni anche sul mercato del lavoro degli stranieri: la chiusura delle frontiere dovuta all’emergenza sanitaria ha già messo in ginocchio molti settori caratterizzati da una forte presenza di lavoratori stagionali, come il turismo e l’agricoltura. Ma l’intera economia italiana, in cui un occupato su dieci è straniero, sarà messa a dura prova. Senza contare le ripercussioni della pandemia sui paesi africani, con potenziali effetti sull’economia e sui flussi migratori.
Tra le sfide che il nostro Paese dovrà gestire nei prossimi anni, dunque, non va dimenticata l’integrazione degli immigrati, ora più che mai necessaria per la ripresa.
I problemi non sono dati dalla migrazione in sé, quanto da una non-gestione della stessa o, per dirla in altri termini, da politiche inadeguate. Tuttavia, per poter definire politiche efficaci e durature è necessario avere una conoscenza approfondita dei fenomeni, basata su dati e analisi attendibili. Il ruolo di un istituto di ricerca come la Fondazione Leone Moressa è dunque di mantenere la corretta misurazione dei fenomeni al centro del dibattito, favorendo un’analisi obiettiva e razionale che esca dalla stucchevole polarizzazione “pro” o “contro” l’immigrazione e che aiuti invece a capire quali sono, all’interno di un fenomeno complesso, gli elementi positivi (da valorizzare) e quelli negativi (da correggere).