di Giorgio Scatto 

In un articolo apparso su Repubblica (21.01.2018) in occasione della "giornata della memoria" per le vittime della shoah, Massimo Recalcati distingue tre versioni possibili della memoria.
La prima è quella che trattiene le tracce del nostro passato.

È definibile anche "memoria archeologica", perché non è più tra noi, è diventata nulla, si è dissolta. Può esistere solo nel ricordo.
La seconda, messa in luce da Freud, è la memoria che trattiene cose vive che insistono nell'attaccarsi prepotentemente alla nostra mente. Il suo modello è quello del trauma: quello che è accaduto nel passato non cessa di accadere, ma insegue la vita, l'accerchia, la rincorre, la tormenta. È un passato che non passa. È l'esperienza che affligge anche persone e popoli che hanno vissuto esperienze drammatiche, impossibili da dimenticare.
La terza versione della memoria è forse la più importante. È la memoria come attributo del futuro. Dovremmo cioè imparare a fare memoria del passato per creare attivamente il nostro futuro. La memoria non deve semplicemente conservare quello che è già stato, ma deve servire la generatività della vita.

La memoria che diventa patrimonio storico di una comunità è fondamentale, perciò, per passare dalle biografie individuali, private, all’edificazione di un progetto che coinvolge il presente e il futuro di un'intera e anche di più generazioni.
Così, ad esempio, il libro biblico del Deuteronomio, che ha la particolarità di presentarsi come una sorta di "ripetizione": vi si ripetono, infatti, i contenuti che già si conoscevano dai libri precedenti, come il Decalogo (Dt 5), o altre leggi che tornano a presentare i precetti già promulgati nel libro dell'Esodo; vengono ripetute anche alcune narrazioni, come quella del vitello d'oro o del cammino attraverso il deserto. Di fatto, «Deutero-nomio» significa letteralmente «seconda legge», ma il senso è che si vuole indicare un rinnovato ritorno alla Torah stessa, promulgata una volta per tutte, non formulare una legge nuova. Il libro vuole essere una "memoria generativa". Tale ripetizione intende soprattutto reinterpretare gli eventi del passato, approfondendoli e interiorizzandoli, al fine di dare nuova luce al presente e aprire la storia a un futuro di speranza.
«Il Signore, tuo Dio, sta per farti entrare in una buona terra; guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio. Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile, che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz'acqua; che ha fatto sgorgare per te l'acqua dalla roccia durissima, che nel deserto ti ha nutrito di manna, sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire» (Dt 8,7.11.14-16). Nella memoria grata è già custodito un seme gravido di futuro.

A questo punto desidero soffermarmi su un evento centrale della nostra memoria cristiana, così come lo leggiamo nell'evangelista Luca: «Quando venne l'ora, Gesù prese posto a tavola, e gli apostoli con lui. Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me"» (Lc 22,19). Faccio notare che tutti i sinottici raccontano quest'ultima cena e il gesto compiuto da Gesù, caricato di parole sconcertanti (Mt 26,26-29; Mc 11,22-25; Lc 22,14-20). Giovanni invece traduce il gesto del pane spezzato nel racconto della lavanda dei piedi, nel quale la parola diventa muta e il gesto assume il carattere di dirompente provocazione, fino a far uscire di testa il buon Pietro: non è pensabile che il Signore s’inginocchi a lavare i piedi a dei servi!
Alla fine, dopo aver ripreso le sue vesti regali, che coprono e nascondono il grembiule cinto attorno ai fianchi, e che rimane perenne memoria di un Dio che si abbassa fino a lavare la nostra carne di peccatori, Gesù spiega quello che ha voluto fare: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
In entrambi i racconti, quello dei sinottici e quello di Giovanni, si tratta di una "memoria generativa". Il gesto dello "spezzare il pane" (At 2,42) è un evento fondamentale, ricordato e celebrato ovunque nelle prime comunità, e che permane anche oggi come memoria fondativa della fede cristiana. La molteplicità delle fonti scritturistiche e le differenze che si trovano al loro interno ne illustrano la straordinaria ricchezza di significati, per cui il senso del gesto dello "spezzare il pane" non si trova in un solo testo, ma nella loro totalità, a partire certamente dai racconti dell'ultima cena. Ne vorrei fare solo qualche esempio, per accenno.
Gesù intende dare ai discepoli il pane e il calice, come dono e compito permanente: "finché non verrà il regno di Dio".
Questo dono è condivisione della sua vita intera, carne e sangue, segno della sua presenza con noi.
È un gesto che simboleggia la sua morte ("questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”), ma soprattutto la sua vittoria su di essa. L'offerta della vita di Gesù alla nostra umanità è pegno e garanzia, dono e promessa, di un’alleanza che dura per sempre, e che abbatte la barriera della morte. L'amore vince la morte e va oltre il limite dell'umano.

Vorrei soffermarmi ancora su un particolare importante, decisivo. Cosa significa "Fate questo in memoria di me"? Cerco di dirlo in breve. Leggere, nel cuore dell'Eucaristia celebrata da una comunità credente, il racconto dell'istituzione, non significa semplicemente ricordare quello che Gesù ha fatto, in una sera tragica, gravida di amore e di tradimento, ormai lontanissima nel tempo. Leggendo quel racconto noi facciamo una memoria generativa. Nel linguaggio biblico si chiama memoriale. Che significa essere presenti, contemporanei all'evento, stare dentro il racconto. E significa altresì imparare a fare della nostra esistenza, che è carne e sangue, cioè umanità segnata dal limite e dalla precarietà, un dono per tutti. "Fate questo, finché io venga". Fare memoria, per un cristiano, è aprire la storia a nuova speranza, attraverso il dono di tutto noi stessi, corpo, anima e spirito. Occorre dare la carne e il sangue: solo così la memoria resta viva.
Nell'ultimo libro di don Luigi Ciotti, "L'amore non basta" (Giunti, Firenze 2020, pag. 31), mi ha colpito la testimonianza di Carmela, la mamma di Antonio Montinaro, capo della scorta di Falcone, ucciso assieme a lui dalla mafia il 23 maggio 1992 a Capaci, raccontata da una sua nipote. «Non mi raccontava mai di come fosse morto suo figlio, ma di come aveva vissuto». E questa io credo sia proprio una delle chiavi per trasformare la memoria in impegno.