Si può pensare che l’esercito assuma forme di azione nonviolenta? Non è forse nella sua natura l’uso della violenza attraverso le armi? E non è questa la ragione del riconoscimento dell’obiezione di coscienza?
La risposta a questi interrogativi non è facile. È vero intanto che l’esercito è stato da sempre concepito come un’istituzione che ha nel suo Dna il ricorso alla violenza mediante l’uso delle armi. Ma è altrettanto vero che il ministero cui esso fa capo ha semplicemente il titolo di ministero della difesa, e non della difesa armata. Ora se è possibile – come ci ha ricordato Gandhi con la sua testimonianza personale – intervenire nei conflitti in maniera nonviolenta, se cioè si dà la possibilità di una difesa nonviolenta, la quale non implica passività o inazione, ma è fatta di interventi fondati sull’assunzione di tecniche ben definite perché non prenderla in considerazione? Si dirà: ma perché il ricorso per questo proprio all’esercito?
La ragione fondamentale è che la difesa nonviolenta ha bisogno, oltre che di un consenso popolare allargato frutto di un'educazione delle coscienze, di una struttura adeguata, fatta di soggetti che acquisiscano la dovuta competenza, apprendendone le tecniche e sapendole mettere in atto in modo efficace. Se ci si riferisce all’esercito, che ha avuto finora carattere unicamente militare, occorre ipotizzare, accanto all’addestramento all’uso delle armi, un iter formativo che addestri all’uso delle tecniche nonviolente, dilatando il campo delle competenze già acquisite nell’esercizio di una serie di attività civili, peraltro spesso già praticate, in occasione di particolari calamità naturali come terremoti, inondazioni (e altro), e che hanno recentemente dimostrato la propria grande utilità nell’affrontare i problemi posti dall’epidemia da Covid-19 (è sufficiente ricordare qui il contributo fornito dal generale Figliuolo). Questo concorrerebbe, inoltre, anche a ridimensionare tendenze rigidamente militariste e guerrafondaie, tuttora persistenti in ampie fasce dei componenti l’esercito, facendo propri comportamenti che già fin d’ora appartengono a molti militari illuminati, i quali ritengono la discesa in campo nella guerra una extrema ratio. L’obiezione di coscienza non dovrebbe per questo venir meno: il rispetto della coscienza di chi, per ragioni etiche e/o religiose, rifiuta in ogni caso di addestrarsi all’uso delle armi, non può che essere ribadito, e il mantenimento dell’obiezione, lungi dall’essere un segno di debolezza, è un segno di forza dello Stato.
Per conseguire il risultato perseguito, quello cioè della preparazione dell’esercito all’esercizio della difesa nonviolenta quale tipo di formazione si imporrebbe?
Si è già accennato alla necessità di conoscenza delle tecniche di nonviolenza, in cui un ruolo centrale occupa la resistenza civile, fatta anche di azioni disturbanti, che possono in alcuni casi comportare persino qualche forma (sempre circoscritta e temporanea) di violenza sulle cose. La nonviolenza non implica il non uso della forza, che si rende talvolta necessaria per affrontare con successo situazioni altrimenti non superabili. Ma questo non basta. Al di là dell’apprendimento delle tecniche, essenziale è l’inclusione nell’iter formativo della presentazione di una visione umanistica della vita, visione la cui acquisizione esige un approccio alle scienze umane e al patrimonio del pensiero e della tradizione classica; patrimonio che consente di introiettare nelle coscienze valori, primo fra tutti quello della pace, sui quali deve fondarsi l’agire umano. Da questo punto di vista un’importanza particolare riveste, per chi crede, la formazione religiosa, che non può essere certo impartita dai cappellani militari, i quali sono parte integrante, a tutti gli effetti, dell’esercito facendo in esso carriera con l’assunzione progressiva dei diversi gradi militari, fino a quello di generale (è questo il titolo dell’ordinario castrense). Si tratterebbe di smantellare tale apparato, che non ha nulla di cristiano, provvedendo da parte delle diocesi in cui sono collocate le caserme a un’assistenza spirituale affidata a un sacerdote del posto ritenuto idoneo a esercitare tale compito in maniera temporanea (il cappellano militare è una professione a vita!), il quale si preoccupi, oltre che di offrire dei servizi – si pensi alla celebrazione eucaristica domenicale – di svolgere una catechesi testimoniale, la quale concorra ad alimentare la fede e a renderla trasparente nelle scelte di vita. Le oggettive difficoltà che in questo si incontrano non devono scoraggiare e tanto meno indurre ad abbandonare il campo.
Riducendo di molto il servizio militare in senso stretto e aprendosi alla pratica della difesa nonviolenta non si incorre nel rischio di mettere in crisi l’industria della fabbricazione delle armi con gravi conseguenze per un numero rilevante di lavoratori?
Il rischio senza dubbio c’è. Ma va affrontato promuovendo, sia pure con gradualità, forme di riconversione della produzione che garantiscano il mantenimento dei posti di lavoro e concorrano a mettere sul mercato prodotti più utili destinati a soddisfare i bisogni reali della popolazione, a partire da quelli delle fasce più povere. L’attuale costante aumento nel bilancio dello Stato della percentuale destinata alle spese militari e la sempre maggiore estensione del commercio delle armi – l’Italia è, a tale riguardo, uno dei Paesi con la percentuale più elevata – costituiscono uno scandalo gravissimo, indegno di un Paese civile!
Un’ultima domanda, collaterale a quanto fin qui detto: che cosa ne pensi delle proposte avanzate da uomini dell’attuale governo di formare studenti all’uso delle armi partecipando al tiro a segno o facendo un tirocinio presso l’esercito?
Le trovo ambedue proposte aberranti. Spero prevalga il buon senso e non vengano messe in atto.