di Giannino Piana
La tecnica, con le sue strumentazioni, è diventata dominante nella diagnosi e nella terapia dei contesti di ricovero (ospedale, territorio-domicilio). Non ti sembra vi sia il rischio della sua sopravvalutazione a discapito del rapporto umano?
La tecnica in campo biomedico ha fatto negli ultimi decenni enormi progressi che hanno dato esiti altamente positivi sul piano della tutela e della promozione della salute. Malattie un tempo letali sono state debellate, altre contenute, con la possibilità del recupero di una buona qualità della vita.
Tutto questo, che non può certo essere misconosciuto, si è accompagnato (e tuttora si accompagna) a risvolti negativi, quali il prolungamento della vita anche in condizioni umanamente inaccettabili – si pensi all’accanimento terapeutico – o le pesanti conseguenze di farmaci, utilizzati per affrontare situazioni di grave malattia, che rivelano a distanza effetti collaterali devastanti. È qui in gioco la connaturale ambivalenza del progresso, che non va mai dimenticata. L’ottimismo illuminista (o neoilluminista) è smentito ogni giorno dai fatti in tutti gli ambiti nei quali si è sviluppata (e si sviluppa) la tecnologia. Ma la domanda che tu poni è molto specifica e merita una risposta puntuale. Che sia in atto nell’esercizio concreto dell’attività sanitaria – medica in particolare – una sopravalutazione della tecnica e che questo vada a scapito del rapporto umano personale sanitario-paziente è fuori discussione. L’intermediazione dello strumento, che viene talora sacralizzato, impedisce spesso il rapporto diretto con la persona del malato o almeno ne riduce il tempo nella convinzione che quello che conta è il risultato offerto dalla macchina, tanto nel momento di formulazione della diagnosi – l’anamnesi personale è quasi del tutto trascurata – quanto nell’individuazione e nell’assegnazione della cura, per la quale ci si affida ai dati forniti dallo strumento. Il che comporta, da un lato, l’eccesso di specializzazione, per cui a essere fatta oggetto d’indagine e di cura è la parte del corpo malata, e non l’intero organismo, come vuole la medicina olistica; dall’altro, più che prendersi cura della persona, delle sue difficoltà psicologiche, delle sue ansie, e delle sue attese – il che è parte integrante, a tutti gli effetti, dell’attività curativa – ci si limita a fermare l’attenzione al solo dato fisico.
Quali significati può avere, secondo te, ancor oggi, il rapporto personale sanitario-paziente? E come recuperarlo?
Ho già accennato all’importante significato che riveste il “prendersi cura” per il buon andamento della cura. Ma il rapporto personale sanitario-paziente ha un valore ulteriore. Il confronto dialogico conferisce al paziente, oltre che la fiducia in chi lo cura – cosa già di per sé di non secondaria rilevanza, perché infonde sicurezza – la possibilità di sentirsi persona che interagisce come tale con l’altro, considerandolo, a sua volta, persona. L’aspetto più negativo dell’assenza di tale rapporto è costituito dal fatto di sentirsi oggetto, “cosa” nelle mani di un tecnico che ti aggiusta come fossi un macchinario da rimettere in sesto per farlo funzionare. È un’impressione non solo sgradevole ma anche ripugnante, che ha inevitabili ripercussioni psicologiche le quali si riflettono inevitabilmente anche sul terreno della reazione allo stato di malattia. Non si creano, infatti, in tal modo le condizioni di una collaborazione all’atto medico, presupposto fondamentale per la buona riuscita dell’attività curativa. Giustamente tu chiedi come recuperare oggi il rapporto interpersonale in una situazione nella quale a prevalere è il ricorso alla strumentazione tecnica alla quale ci si affida in termini incondizionati considerandola come risolutiva di tutti i problemi. La risposta non è facile. La prima condizione è la presenza di un personale sanitario fatto di persone mature ed equilibrate, che vivano con serenità i rapporti umani nei vari contesti in cui si sviluppa la vita. La professione medica presenta al riguardo, per la delicatezza che la caratterizza, una particolare e singolare differenza rispetto ad altre professioni. La persona malata non è in una condizione normale, ma si trova a vivere in uno stato di debolezza e di fragilità; ha perciò bisogno di essere aiutata a reagire con tutte le proprie energie alla situazione grazie a un accompagnamento fatto di disponibilità e di accoglienza, di vera solidarietà. La sensibilità personale degli operatori sanitari, per quanto essenziale, tuttavia non basta. È necessario che essa sia accompagnata dall’acquisizione di strumenti che forniscano loro competenze psico-pedagogiche in grado di far fronte alla varietà e alla complessità dei problemi delle singole persone, uscendo da stereotipi banali e inefficaci. La questione è allora qui quella della formazione di medici e infermieri attraverso il curriculum degli studi preparatori. Pur riconoscendo che, almeno in alcune università, vi sono stati significativi passi in avanti nella direzione di una formazione umanistica, si deve riconoscere che la preoccupazione dominante è soprattutto quella della preparazione tecnica, con un’insufficiente integrazione dei due momenti – umanesimo e tecnica – e perciò con una visione deformata dell’esercizio dell’attività professionale. Molto resta dunque ancora da fare, ed è augurabile che si faccia presto.
Un vecchio adagio del buon senso clinico ammoniva che “la malattia non esiste, esistono soltanto i malati”, intendendo dire che ogni malato è diverso da un altro anche quando entrambi sono colpiti dalla stessa infermità. Nel tempo del potere della tecnica quanto è ancora valida una simile affermazione? Che ne pensi?
Sono del tutto d’accordo con questo vecchio adagio. La malattia è, infatti, un concetto astratto, la persona una realtà concreta con un’identità unica e irrepetibile che va rispettata e salvaguardata. Non vi è nulla di più frustrante che percepire che si è considerati un “caso clinico” cui vengono applicati protocolli preordinati senza tener conto delle differenze individuali, e dunque secondo una logica omologante. Purtroppo questa tentazione è oggi ricorrente, e rischia di accentuarsi se non si esercita un controllo maggiore nei confronti della tecnica e una più seria e incisiva formazione umanistica.