di Giannino Piana
L’indizione del referendum sulle questioni di fine vita, inclusi eutanasia e suicidio assistito, la cui data dovrebbe essere indicata tra breve, pone seri interrogativi. Ci si può infatti chiedere: è il referendum lo strumento opportuno per affrontare un tema tanto delicato che coinvolge questioni relative al dolore e alla morte? E, se lo è, che ne pensi dei contenuti della proposta di legge popolare che ha raccolto in breve oltre 500.000 firme?
Personalmente non sono contrario al referendum che consente di verificare la volontà popolare attorno a questioni esistenziali di grande portata che coinvolgono la vita di tutti.
Del resto, il fatto di aver raccolto in tempi brevi – come mai era avvenuto in passato – le firme necessarie per presentare la proposta di indizione del referendum manifesta quanto queste questioni siano percepite come importanti da una parte consistente della popolazione. Più perplesso sono invece sui contenuti della proposta di legge avanzata. La loro formulazione risulta assai generica. Assai vaga è infatti l’indicazione delle condizioni che rendono legittimo il ricorso, nonché quelle riguardanti le modalità secondo le quali deve avvenire la preparazione del paziente e l’esecuzione dell’intervento. Basterebbe confrontare la proposta di legge Cappato con i dispostivi presenti, al riguardo, in leggi vigenti come quella olandese o belga per rendersi conto della semplificazione (e superficialità) della proposta di legge di iniziativa popolare italiana. È vero che tale proposta è destinata a essere vagliata dal Parlamento, dove sono peraltro depositate da alcuni anni altre proposte finora non prese in considerazione. Forse ciò che i promotori del referendum si proponevano era semplicemente di suscitare una più viva sensibilità nell’opinione pubblica e di spingere, nel caso di vittoria del “sì”, il Parlamento a intervenire rapidamente.
L’assenso dato alla proposta referendaria soprattutto da parte dei giovani manifesta, a tuo parere, l’emergere di una nuova sensibilità nei confronti della vita e della morte o è frutto dell’avanzare di una cultura individualistica?
È difficile rispondere. Sono probabilmente presenti ambedue le motivazioni. È certo che siamo oggi di fronte a una maggiore percezione della necessità di andare incontro a una morte dignitosa. La cultura dei diritti sollecita tale necessità; vi è un diritto fondamentale alla dignità del morire, che è presente nella coscienza collettiva e che corrisponde anche a una sempre maggiore attenzione alla qualità della vita personale. La possibilità di interventi tecnologici sempre più sofisticati che consentono di protrarre oltre misura la vita biologica incorrendo nell’accanimento terapeutico, ha senz’altro concorso (e concorre) ad accentuare quest’attenzione. Non si può tuttavia, nel contempo, negare che sussistano nell’assenso all’iniziativa referendaria, soprattutto da parte dei giovani, motivazioni di ordine individualista, che ignorano la valenza sociale della vita umana di ciascuno e che riconducono tutto a una decisione soggettiva, a prescindere da qualsiasi riferimento al contesto relazionale nel quale la vita si sviluppa. È vero che la decisione circa il ricorso all’eutanasia o al suicidio assistito non può che essere, in definitiva, strettamente personale, ma il confronto con le persone con cui si vive e alle quali si è legati da profondi legami affettivi non può essere radicalmente accantonato.
Come va interpretata la cultura dell’autodeterminazione che è alla base del referendum? Si tratta di un criterio assoluto o va mediato con altri criteri? E quali?
Va detto anzitutto che il principio dell’autodeterminazione, peraltro già previsto dall’art. 32 della nostra Costituzione, in cui si afferma che la scelta del trattamento terapeutico cui essere sottoposto va riservata al paziente e non può subire alcun obbligo esterno “se non per disposizione di legge”, ha rappresentato (e rappresenta) un criterio valoriale di grande importanza segno di un processo di autentica crescita della coscienza civile. Ma l’autodeterminazione non può (e non deve) essere intesa come un esercizio assoluto e senza condizioni limitative della propria libertà; non può (e non deve), in altri termini, identificarsi con una sorta di libertarismo selvaggio, che prescinde da qualsiasi altra considerazione. Si è già rilevata, a tale proposito, l’importanza dei legami interpersonali e sociali. A conferma di questo merita di essere sottolineato il fatto che – come recita l’articolo della Costituzione citato – la salute è “un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della società”. Il che pone un limite all’autodeterminazione, quando è in gioco il “bene comune”, che costituisce pertanto un importante criterio di valutazione. È la ragione per cui non si può negare oggi la possibilità del ricorso all’obbligatorietà del vaccino anti Covid, quando il rifiuto di sottoporsi a esso può mettere in serio pericolo la salute (talora persino la vita) di altri.
Vi è chi ritiene che l’introduzione anche nel nostro Paese dell’eutanasia e del suicidio assistito possa provocare la cosiddetta “china scivolosa”, che conduce a una disattenzione nei confronti dei soggetti più deboli – bambini e anziani – sulla cui vita si rischia di passar sopra con facilità. Che cosa pensi?
Non vi è dubbio che il rischio esista. E questo soprattutto in una società caratterizzata dal prevalere di logiche produttiviste e utilitariste che fanno capo all’ideologia del mercato, divenuto “pensiero unico”. A rendere difficile l’intervento legislativo è dunque il contesto culturale, che va senz’altro tenuto in considerazione. Ma non si può per questo negare la possibilità di dare vita a normative anche su eutanasia e suicidio assistito non esistendo, sul terreno strettamente razionale, motivazioni apodittiche per negare la possibilità dell’esercizio responsabile dell’autodeterminazione anche di fronte alla decisione circa il quando e come morire. Il problema è semmai quello di circoscrivere con precisione l’ambito entro il quale tali interventi possono essere legittimati e di indicare con precisione – cosa che la legge d’iniziativa popolare non fa – i dispositivi che devono presiedere alla loro esecuzione.
Esiste una differenza sostanziale tra eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico? E ancora: si danno a essi alternative plausibili? Quali?
Nei primi due casi – eutanasia e suicidio assistito – la differenza sostanziale è dovuta alla diversità dell’intervento degli operatori sanitari. Mentre infatti nel caso dell’eutanasia a intervenire provocando la morte è direttamente il medico; nel caso del suicidio assistito è lo stesso paziente. L’eutanasia può allora essere praticata anche su di un paziente incosciente che ha espresso la propria volontà attraverso il testamento biologico; il suicidio assistito presuppone invece la piena coscienza del paziente che vi si sottopone. Diverso è il caso dell’accanimento terapeutico, dove in gioco vi sono interventi pesanti per il mantenimento in vita di un paziente inguaribile e magari terminale, i quali conducono – come si è detto – a una dequalificazione della vita personale. La domanda eutanasica è oggi spesso domanda di non accanimento terapeutico indotta dalla possibilità di trattamenti eccessivi e ingiustificati. La via da percorrere è allora quella delle cosiddette “cure palliative”, le quali non hanno l’obiettivo di guarire, ma di accompagnare il paziente, nel modo più umano possibile – si pensi soltanto all’alleviamento del dolore – fino al traguardo della morte.