di Giannino Piana

Si sono ripetute negli ultimi mesi nel nostro Paese, con sempre maggiore frequenza, gravi situazioni nel mondo del lavoro: dalle morti di giovani e di migranti alle condizioni di sfruttamento di categorie non protette costrette a sottostare a vere e proprie nuove schiavitù. Dove sta andando il lavoro? Non è forse vero che ha perso ogni carattere di dignità umana?

Le situazioni sulle quali hai messo l’accento sono molto gravi e denunciano il venir meno di presupposti fondamentali, che sono alla base della costruzione di una vera civiltà.

Il ripetersi delle morti sul lavoro e le condizioni disumane nelle quali si trovano a operare molti lavoratori, soprattutto migranti, impegnati in lavori duri e senza alcuna protezione costituiscono – come tu stesso dici – una vera forma di schiavitù. La perdita della dignità del lavoro, che si registra non soltanto in questi casi, ma si estende anche a situazioni meno drammatiche ma assai diffuse, mette in serio pericolo il rispetto della dignità umana. Il lavoro – l’ha ripetuto più volte papa Francesco – è uno dei luoghi (forse il luogo più importante) della tutela e della promozione di tale dignità. In esso è in gioco la realizzazione personale e l’inserimento nella vita sociale. La situazione attuale è dunque preoccupante ed esige che s’intervenga con urgenza a modificarne il corso, provvedendo ad assicurare a tutti la possibilità di accesso al mercato del lavoro e migliorando le condizioni nelle quali l’attività lavorativa viene sviluppandosi.

L’interrogativo che sorge spontaneo di fronte a questo stato di cose è: la responsabilità dei fenomeni ricordati non va forse addebitata al sistema economico vigente, che ha come obiettivo prioritario la ricerca del profitto, anziché assegnare al lavoro il primato che gli spetta? Che cosa ne pensi?

Le ragioni della perdita di significato sono senz’altro molte e di diversa natura ed entità. Non si può sottovalutare a tale proposito la portata dei processi tecnologici in atto, in primis del fenomeno dell’automazione fino all’avanzamento dell’intelligenza artificiale. La sostituzione dell’uomo con la macchina ha ridotto quantitativamente (e ridurrà sempre di più) il numero dei posti di lavoro. Nonostante si vada dicendo (e in parte è vero) che si aprono (e si apriranno in misura sempre più consistente in futuro) possibilità inedite legate al farsi strada di nuove professionalità, è difficile ipotizzare che possano compensare il numero attuale di lavoratori. D’altra parte – e non è questo un elemento di secondaria importanza – si assisterà e già in parte si assiste (lo rilevano molti sociologi) a una forte diseguaglianza tra le classi sociali, con l’affermarsi di un’élite ristretta di professionisti di alto livello e una massa sempre più ampia di lavoratori dediti a un’attività puramente esecutiva e di controllo delle macchine con il rischio di una dequalificazione, la quale non può che dare luogo a nuove forme di alienazione. Ma la tua domanda è più radicale: chiama in causa il sistema economico vigente, che ha ricevuto un nuovo input e nuove potenzialità dalla rivoluzione tecnologica, ma le cui radici vanno ricercate più a monte, perché chiamano in causa la logica capitalista, per la quale le finalità dell’attività economica sono riconducibili alla massimizzazione della produttività e a quella del profitto. Un sistema siffatto non può che penalizzare il lavoro che assume sempre più – Marx lo aveva già denunciato – il carattere di merce di scambio. A questo si aggiunge – e costituisce un ulteriore fonte di deprezzamento dell’attività lavorativa – l’affermarsi, nell’attuale fase del neocapitalismo, del primato della finanza, con la possibilità di guadagni esorbitanti dalla semplice moltiplicazione del denaro. La crisi di questo sistema in atto – si pensi soltanto a quanto è avvenuto nel 2007-2008 negli Stati Uniti e in seguito a macchia d’olio in gran parte del mondo – avrebbe dovuto creare le premesse per una sua revisione critica e per la ricerca di nuove alternative. Ma i segnali che sono finora visibili lasciano fortemente perplessi: al di là di qualche piccolo aggiustamento, a venire perseguiti continuano a essere gli obiettivi ricordati.

La post-pandemia alla quale siamo avviati non sembra modificare gli attuali indirizzi; anzi, sembra persino accentuarne la portata. L’aumento del fenomeno della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile è destinato a provocare un forte incremento del conflitto sociale. Quali strade si stanno percorrendo per evitarlo? E si tratta, a tuo parere, di strade giuste e percorribili?

Non vi è dubbio che la pandemia ha costituito un forte campanello di allarme, che ha messo sotto processo l’odierno sistema. A preoccupare è oggi soprattutto – come hai ricordato – l’accentuarsi dei fenomeni della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile. Il conflitto sociale è destinato a crescere: speriamo non si pervenga alla sua esplosione con conseguenze destabilizzanti. Si deve riconoscere che le strade che sono state imboccate in Europa, e nel nostro Paese, per affrontare la ripresa sono, per alcuni aspetti più serie che per il passato. A essere posti in primo piano, nell’ambito dei provvedimenti messi in campo e dei finanziamenti a essi destinati vi sono alcune scelte significative, che lasciano intendere la volontà di un cambiamento che tenga in considerazione le istanze sollevate dall’attuale situazione di crisi. Ma si tratta di una risposta ancora troppo debole alla domanda di dare vita a una profonda inversione di rotta.
   

Tornando alla questione del lavoro, è significativo (e sorprendente) il fatto che il nostro Paese intenda togliere il blocco dei licenziamenti per le aziende non in crisi (aziende che non dovrebbero avere motivo per licenziare) in nome della libertà dell’impresa. Che cosa ne pensi? Come va interpretato il principio della libertà d’impresa? E con quali limitazioni?

È vero. Il fatto cui accenni è senz’altro sorprendente. Sono comprensibili le difficoltà del Governo che non può non tener conto delle richieste delle diverse parti sociali, dando luogo a necessarie forme di mediazione. Ma è qui evidente un cedimento della politica alla pressione del potere economico. La libertà dell’impresa è un principio che sta alla base di ogni regime di democrazia liberale, e che è dunque presente anche nella nostra Costituzione. Ma la Costituzione italiana non manca di metterne in luce le oggettive limitazioni. Non si tratta di una libertà assoluta e senza condizioni, ma di una libertà che fa i conti con le ricadute sociali, e che deve pertanto misurarsi con gli effetti positivi e/o negativi di quanto viene prodotto sulla crescita comune. Si esige pertanto l’intervento della politica, chiamata a fornire regole precise alle quali l’attività economica deve attenersi e a sostenere quelle iniziative che hanno più direttamente a che fare con la promozione dei diritti di tutti, a partire da quelli delle fasce meno garantite della popolazione. Purtroppo il rischio che oggi si corre è quello della prevaricazione del potere economico su quello politico, divenuto, nel contesto della globalizzazione, sempre più debole fino al punto di risultare una variabile dipendente del primo. La strada da percorrere è allora quella di restituire al potere politico la sua funzione di guida della vita sociale, riacquisendo credibilità e autorevolezza.

Tutto quello che tu dici è molto vero. Ma forse la questione è più radicale. A imporsi non è forse una rivoluzione del sistema? Se questo è vero, come procedere per realizzarla?

Non vi è dubbio che l’attuale stato di crisi rinvii alle radici dello stesso sistema economico-sociale in atto. Che se imponga un’autentica rivoluzione è perciò un dato di fatto inoppugnabile. È tuttavia difficile dire come ciò possa avvenire; quali scelte di fondo vadano programmate. Mi limito a fare qui due considerazioni generali. La prima è che, oltre a un potere politico forte – come già accennato – si esige un progetto preciso di cambiamento, che metta al centro la ricerca del bene comune, superando le tendenze individualiste e corporative attualmente presenti nella società. La seconda considerazione è che si abbia il coraggio di uscire dalla logica consumista – è questa una responsabilità di tutti i cittadini – per fare spazio a valori come la sobrietà e la solidarietà, privilegiando le relazioni interpersonali e sociali e dando il primato al perseguimento della qualità della vita.