di Paolo Iannaccone   

Città laica, terra di frontiera e di sofferti confini, principale porta della Rotta balcanica, cerniera con Nord ed Est Europa, al medesimo tempo porto di mare, crocevia di popoli e culture, e storico laboratorio di convivenza di differenze religiose e culturali: sono i motivi che hanno portato a scegliere la città di Trieste per la 50a edizione delle Giornate sociali dei cattolici in Italia, che si è tenuta a inizio dello scorso mese di maggio alla presenza del pontefice e del presidente della Repubblica.

Il centro storico con le sue piazze, strade pedonali e centri congressi è diventato un salotto, luogo d’incontro, di dialogo e confronto sulla democrazia, oggi particolarmente sofferente a causa della crisi di partecipazione e di una società sempre più polarizzata.

Eppure, come ha affermato Mattarella, «al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità». E proprio per questo – ha affermato il presidente della CEI, card. Zuppi, anche alla luce della preoccupante crescita della povertà assoluta (un italiano su dieci!) – la democrazia necessita di divenire «migliore e più inclusiva».
«Il vero male sociale non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura», ci ricordava un anno fa da Marsiglia il vescovo di Roma. E da Trieste ha voluto ribadire che il vero “cancro della democrazia” è l’indifferenza, quell’indifferenza che l’amico Pierluigi Di Piazza, prete degli ultimi e profeta del nostro tempo, ci ricordava essere il suo unico nemico. Così in un recentissimo scritto la definisce Enzo Bianchi: «male radicale che in realtà non è solo omissione, ma è complicità con chi opera il male. Chi si gira dall’altra parte se vede una vittima sofferente è colpevole come chi ha colpito quella vittima e può essere un assassino se non fa nulla e non si prende cura fino a lasciar morire quell’essere umano» (in Fraternità, Ed. Einaudi, Torino 2024, p. 52).

La bella intuizione di questa edizione delle Giornate sociali è stata dunque la capacità di dare visibilità a un poliedrico mondo che, non senza fatica e spesso sotto traccia, continua a credere nella partecipazione “attiva” e “creativa” secondo i principi di sussidiarietà e solidarietà, e opera in contrasto alla cultura dello scarto, offrendo tempo, energie, risorse, amicizia e condivisione. Lo sapevamo, ma in un tempo buio come quello che stiamo vivendo, dove prevale spesso l’individualismo esasperato e menefreghista, con tante vite abbandonate e lo scarto dei non omologati (fragili, poveri, emarginati, profughi, disabili,…), dovevamo vederlo con i nostri occhi e sentirlo narrare dalla concretezza di centinaia di esperienze che da tutta la penisola sono accorse all’estremo Nord-Est per testimoniare come una nuova civiltà fondata sulla pace e sulla fraternità sia davvero possibile da parte di tutti, dalle singole famiglie alle comunità ecclesiali, dall’associazionismo al più piccolo ente del terzo settore.
Perché, dinanzi al male che dilaga e che non ci scandalizza più, c’è bisogno di ritrovare una «fede umana, di carne, che entra nella storia, che accarezza la vita della gente, che risana i cuori spezzati, che diventa lievito di speranza e germe di un mondo nuovo… una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe della società, una fede che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; una fede inquieta… che aiuta a vincere la mediocrità e l’accidia del cuore… una fede che spiazza i calcoli dell’egoismo umano, che denuncia il male, che punta il dito contro le ingiustizie, che disturba le trame di chi, all’ombra del potere, gioca sulla pelle dei deboli».

La grande sfida per una viva democrazia sta, dunque, ancora nell’“etica del volto” che il vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, ha ben incarnato nel saluto conclusivo delle Giornate, facendo memoria dei fragili chiamando alcuni per nome, perché il conoscere “di persona” è l’unico antidoto al rischio di ideologizzare persone e popoli, religioni e culture. Saper riconoscere il nome significa mettere al centro la persona, ri-conoscere la sua storia; significa lottare perché sia considerata nella sua dignità, divenire partecipi del suo cammino di liberazione. È questa l’arte di restare umani.
È l’“etica del volto” a traghettarci dall’identità all’alterità, dal primato dell’io al primato dell’altro: è l’incontro dei volti che ci salva la vita, che ci dice ancora una volta chi siamo e chi vogliamo essere di fronte all’altro, se siamo capaci d’indignarci per le situazioni in cui la vita viene abbruttita, ferita, uccisa, quale futuro desideriamo costruire e consegnare alle nuove generazioni, su quale tipo di società vogliamo scommettere, alla fin fine, se vogliamo davvero essere “fratelli tutti”. Ce lo chiedono in tanti, anche i molti nomi che non conosciamo o che abbiamo già dimenticato, come quello di Satnam Singh, il bracciante indiano morto dissanguato perché abbandonato davanti a casa con il braccio tranciato a causa di un incidente sul lavoro.

Nelle Giornate sociali tutto questo ce l’ha ricordato anche un simbolo che nel capoluogo giuliano, a cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia, è perenne memoria della rivoluzione che ha portato alla Legge 180 e alla restituzione di dignità alla malattia mentale, nel considerare il malato come una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, aiutare, e non da recludere. Si tratta del cavallo di cartapesta che ha “nitrito” anche a papa Francesco al suo arrivo a Trieste.
Era il gennaio 1973 quando nel manicomio finalmente aperto di San Giovanni, nella periferia di Trieste, era da poco nata la prima cooperativa. Basaglia aveva messo a disposizione a degli artisti uno dei primi reparti vuoti dando inizio a un singolare laboratorio. Angelina, un’assistita, aveva disegnato un cavallo; diceva che si chiamava Marco, come il cavallo che portava su e giù per San Giovanni il carretto della biancheria sporca e che ormai vecchio stava per essere mandato al macello.
È così che è nato Marco Cavallo, azzurro come il cielo e il mare, il colore della libertà. Per cogliere oggi il senso della presenza di Marco Cavallo basti pensare alla tragica oscenità dei reparti psichiatrici che ancora segnano dolorosamente il mondo con le porte blindate, i letti di contenzione, le persone abbandonate, l’impiego massiccio e irrazionale dei farmaci, le solitudini, gli abbandoni…
Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto centinaia di internati lo seguirono. Per poter uscire doveva abbattere i muri a partire da quelli fisici: costruito all’interno dell’edificio, per i suoi 4 metri di altezza fu fatto “evadere” sfondando alcune porte e un architrave, permettendo così la rottura anche del muro simbolico fra il “dentro” e il “fuori”. Cominciò così il viaggio di Marco Cavallo nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei campi profughi, nelle scuole, negli ospizi, in tutte le istituzioni totali. Finora la sua storia ha parlato di libertà a milioni di persone e tuttora si batte potente e coraggioso contro l’esclusione, le diseguaglianze, i potenti, le porte chiuse e i confini insormontabili.

È la medesima strada che il vescovo di Roma indica alle diverse anime del cattolicesimo, che potranno ritrovare un fecondo dialogo nella misura in cui faranno riferimento alle stesse bussole: come cristiani, al Vangelo e, come cittadini, alla Costituzione.
E, indicando quella strada, chiede di scommettere sul paziente avvio di processi più che sulla conquista di spazi. Solo così, in un cammino autenticamente sinodale dove, come ha affermato Mattarella «democrazia è camminare insieme», daremo vita a comunità solidali frutto di “cuori risanati” capaci di favorire l’intreccio di due fili d’oro: la messa in comune delle risorse e la creazione di legami fecondati dalla solidarietà. Perché partecipare è l’ossigeno della democrazia.