di Giovanni Grandi   

La domanda, trascorsa l’estate, si fa progressivamente più viva: che cosa ha portato e che cosa rimane – o meglio prosegue – della Cinquantesima Settimana Sociale dei Cattolici in Italia? È indubbio che l’incontro nazionale di luglio a Trieste sia stato un momento particolarmente significativo, come del resto hanno sottolineato, anzitutto con la loro presenza, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco: la cifra “tonda” meritava di per sé una celebrazione sui generis, ma ora si tratta di capire che cosa rimarrà nella memoria storica dell’evento e che cosa si tradurrà nei termini di una novità che supera l’evento.

Qualche considerazione – qui a titolo del tutto personale – si può avanzare.

Le giornate di Trieste hanno inteso recepire alcune indicazioni provenienti anzitutto dagli “addetti ai lavori”, dai delegati diocesani che hanno potuto seguire anche le precedenti edizioni, in cui già diverse novità erano state introdotte o comunque suggerite nell’organizzazione dell’evento: il superamento della modalità convegnistico-accademica, caratterizzata da estese relazioni teoriche, l’ampliamento delle opportunità di scambio e confronto tra i partecipanti, l’attenzione alle buone pratiche dei territori, l’incontro con la città ospitante, l’apertura al “dopo”, che nel caso di Taranto si è concretizzata nell’incentivo delle comunità energetiche.

Da queste attese sono nate alcune scelte specifiche: quella di offrire relazioni introduttive brevi, il più possibile coordinate all’interno di un movimento continuo di lavoro di più giornate; quella di adottare una metodologia realmente in grado di favorire la partecipazione di tutte le persone delegate dalle Diocesi all’individuazione di punti di convergenza; quella di portare le buone pratiche legate al tema – ricordiamolo: Al cuore della Democrazia, partecipare tra storia e futuro – nelle vie e nelle piazze di Trieste, con più di un centinaio di stand e, infine, quella di promuovere dibattiti pubblici, aperti e plurali, ma anche spettacoli capaci di coinvolgere un pubblico più ampio dei delegati. E così è stato, registrando più di 7000 presenze ai diversi eventi collegati, resi fruibili anche dalla realizzazione di una webapp dedicata, da cui per tutti rimane possibile accedere ai testi delle meditazioni bibliche, delle relazioni, ma anche alle raccomandazioni sociali e politiche e alle proposte elaborate dai delegati.

Questo mix di elementi, che ha richiesto uno sforzo organizzativo non banale, ha indubbiamente contribuito alla riuscita della Settimana di Trieste, e ha contribuito a evidenziare alcuni aspetti del “mondo cattolico” impegnato nel sociale e nel politico, un mondo che ha preso parola raccontandosi nelle piazze e che soprattutto ha condiviso maggiormente gioie e speranze, così come tristezze e angosce, per riprendere le intramontabili dimensioni esistenziali della Gaudium et Spes.

Provo a inventariarne alcune, senza pretesa alcuna di completezza.

Anzitutto è stata motivo di soddisfazione la composizione delle delegazioni: le diocesi hanno per lo più seguito l’indicazione di coinvolgere giovani e donne, che hanno costituito (in entrambi i casi) un terzo della platea. A questa scelta di bilanciamento ha fatto eco la scelta dei relatori delle plenarie, dei quasi cinquanta ospiti intervenuti ai dibattiti pubblici e delle persone che hanno moderato i palchi: ovunque la parità di genere e l’attenzione intergenerazionale sono state la norma. È un segno che concretizza speranze e “normalizza” la convergenza di una pluralità di sguardi e sensibilità segnando un punto di non ritorno.

Venendo al tema, si è confermato che nel tessuto sociale del Paese ci sono grandi riserve di creatività e di dedizione al Bene Comune, categoria classica e molto cara anche al Presidente Mattarella. La partecipazione è declinata in tantissime realtà – specialmente associative – come contribuzione alla vita civile e democratica, nello spirito di quel “ramo” della giustizia distributiva che disegna il movimento del dare, del mettersi a disposizione della comunità di cui si è parte, come del resto prevede l’articolo 4 della Costituzione italiana.

A Trieste si è visto poi che questa disposizione alla costruzione della Città dell’uomo – evocando qui Lazzati – non è confinata nel sociale, ma si esprime vivacemente anche nel politico: più di una settantina tra i delegati si sono riconosciuti tra loro anche in forza del servizio che prestano nelle amministrazioni locali, inaugurando una forma di collegamento che, al di là del nome forse poco fantasioso di “rete di Trieste”, dice di una necessità di incontro e di confronto di livello nazionale. Un segnale interessante, su cui ritornerò.

Collocherei a metà tra i toni della speranza e della preoccupazione il riscontro raccolto dai lavori di gruppo, che, come dicevo, hanno seguito una specifica metodologia – quella del “Discernimento in comunità” (rinvio qui per sintesi al testo CEI “Ascoltare, condividere, orientarsi”) – per poter dare parola e ascolto a ciascuno dei quasi mille delegati, giungendo a elaborare delle sintesi condivise (in particolare le 20 raccomandazioni sociali e politiche per sostenere la partecipazione) in un tempo contenuto. Il lato “speranzoso” deriva dalla riuscita del percorso progettato ad hoc: non è impossibile, tutt’altro, partecipare attivamente e in modo bilanciato alla individuazione di priorità che siano espressione del sentire e delle competenze politiche di una comunità ampia e non del prevalere di alcune voci, vuoi per capacità dialettica, vuoi per “peso” del ruolo. Si dirà: è la sinodalità! Certo, solo che non si tratta né di una magia, né di un esito dovuto esclusivamente alle soluzioni “tecniche” adottate. Direi che si tratta, come hanno sperimentato delegati e delegate, di una disciplina radicata nella fiducia dell’apertura delle coscienze alle ispirazioni più costruttive per tutti (e che, per i cristiani, vengono dallo Spirito). E questo fa emergere il lato non certo triste ma quantomeno preoccupato che l’esperienza triestina ha evidenziato: accettare di auto-disciplinarsi, di contenersi nelle cose che si vorrebbero dire è difficile, e lo è in particolar modo per chi è abituato ad assumere ruoli di responsabilità e di guida in una comunità. Accettare di diventare “tassello” in un movimento comunitario di lettura della realtà e di condivisione e studio di prospettive, rinunciare – in questa specifica fase di un percorso di discernimento comunitario – a porsi come i più competenti a priori è davvero faticoso e diversi, anche tra coloro che pure in astratto auspicano tanto “sinodalità” quanto “partecipazione”, hanno rigettato questa fatica. Non illudiamoci, c’è molta strada da fare per ricostituire concretamente una sensibilità comunitaria, che tanto nella città quanto nella Chiesa sembra aver lasciato posto a quel “clericalismo” spesso denunciato da papa Francesco, e che – a dispetto del nome – ha poco a che fare con il clero e molto con l’abitudine a delegare ai leader, per un verso, e per l’altro, nei leader/responsabili, a ritenersi depositari delle migliori intuizioni e capacità di lettura della realtà.

Ritorno così al punto a cui rinviavo sopra e che, a sua volta, costituisce un chiaroscuro: l’esigenza di una rinnovata stagione di partecipazione popolare alla costruzione delle politiche di sistema-Paese. Sale da più parti la denuncia di una grande ferita partecipativa nella nostra democrazia, ovvero dello scollamento tra il “popolo” – noi tutti cittadini – e, per usare una immagine chiara per quanto triviale, le “stanze dei bottoni”. Le buone pratiche, sociali e amministrative locali, faticano a “scalare” la parete che conduce alle (necessarie) vette da dove si elaborano visioni e dove si prendono decisioni strategiche. L’assenza quasi totale di democrazia e di dibattito nei partiti, la trasformazione di questi indispensabili corpi intermedi – previsti non per nulla dalla Costituzione – in movimenti a trazione leaderista pluridecennale (sembianza laica del clericalismo!), ha trasformato in un sesto grado quella che doveva rimanere un’escursione impegnativa, ma alla portata di chi avesse la vocazione al servizio politico nelle istituzioni. Le forze più innovative, e ce ne sono, rimangono “confinate” nella dimensione locale, per cui non sorprende che in un contesto di confronto nazionale l’esigenza dei cattolici impegnati di incontrarsi, di ascoltarsi trasversalmente rispetto agli schieramenti, di pensare insieme il bene comune possibile, scaturisse “dal basso” prendendo una prima forma. Dicevo che si tratta, opinione ancora una volta personale, di un chiaroscuro da esplorare: concordo con quanti mettono in guardia dal vagheggiare un “partito dei cattolici”, e credo valgano ancora oggi, a distanza di 20 anni, le riflessioni che Pietro Scoppola aveva affidato a Giuseppe Tognon nell’intervista “La democrazia dei cristiani” (Laterza, Bari 2006). D’altra parte, mi pare anche che sia maturo il tempo per ripensare l’esperienza partito, recuperandola in senso costituzionale, secondo la raccomandazione del presidente Mattarella, come una forma del partecipare e non del parteggiare. Su questo fronte occorrerà provare ad avanzare: forse è il più difficile, ma anche il più rilevante per la democrazia, perché esplicita la necessità di un rinnovato coinvolgimento popolare non tanto nel momento del voto, ma nei tempi intermedi della trasformazione sociale, delle realizzazioni, delle verifiche, dell’analisi dei problemi, dell’aggiustamento delle soluzioni…

La Cinquantesima Settimana Sociale, come del resto era nelle intenzioni, non ha quindi raggiunto delle “conclusioni”, ma forse ha innescato alcuni processi, embrionali eredità che chiedono – a tutti – di essere raccolte con fiducia e creatività.