di Giancarla Codrignani
Avevo scritto ad alcuni di voi che non ero pronta a ricordare mons. Luigi Bettazzi vescovo emerito di Ivrea come davvero morto. Per noi amici, sparsi in giro per l’Italia e il mondo, don Luigi lo aspettavamo per la festa dei cent’anni, quando, come diceva, sarebbe diventato secolare. Gli anni c’erano tutti e non c’era ragione di pensare che non sarebbe accaduto; ma sembrava sfidare il tempo, infatti il giorno del funerale era atteso alla Casa della Pace di Firenze. Sapere che non c’era più mi ha dato smarrimento, anche se debbo a Giuliana Bonino di essere potuta andare un’ultima volta dall’amico di una vita: era assistente della Fuci quando frequentavo l’università, più o meno settant’anni fa. Con qualche dissolvenza era rimasto il solo superstite degli amici “storici”, per giunta quello che sapeva tutto di me.
Dei veterani di Pax Christi credo di essere ormai l’unica a essere stata convocata nel 1968, quando il Vaticano l’aveva nominato responsabile italiano dell’organismo che la Santa Sede aveva destinato alla “pace nel mondo”: anche i giovani cattolici partecipavano al movimento “rivoluzionario” e alla curia parve opportuno, dopo mons. Castellano, dare fiducia a un vescovo giovane. Erano tempi - il Sessantotto è diventato “mitico” - di forti emozioni e richieste di cambiamento: con Bettazzi la sezione italiana di Pax Christi divenne come le altre, la tedesca, la francese, l’inglese, sullo sfondo anche l’americana: era una componente attiva del movimento internazionale e quando ne divenne presidente il card. Alfrink, in grande sintonia con Bettazzi, la nostra specificità pacifista faceva dire a don Luigi che altre associazioni in nome della pace facevano assistenza, solidarietà, mentre Pax Christi faceva politica.
Non era facile, ma paradossalmente in un mondo in cui esisteva l’apartheid in Sudafrica e l’America Latina era un lager di dittature militari, eravamo tantissimi nelle “lotte”, una parola che non piaceva a Lidia Menapace, ma era stata purificata dalle lotte nonviolente dei lavoratori. Il “pacifismo attivo” promuoveva iniziative, ma Pax Christi aveva una marcia in più per la notorietà crescente della personalità coraggiosa e teologicamente dirompente che arrivava alle pagine dei giornali (per verità storica la stampa laica; poi, dopo qualche esitazione, l’Avvenire (nato dalla soppressione nel 1965 dell’Avvenire d’Italia e organo della Cei), per iniziative non sempre in linea con le riserve della Curia. L’impegno a favore dell’obiezione di coscienza fu all’origine orientamento tutto personale di don Luigi, che, quando l’associazionismo cattolico era fermo al palo, memore della denuncia presentata dai cappellani militari che avevano portato in tribunale don Milani e p. Balducci, aveva contattato la Loc (Lega degli obiettori di coscienza). La sua posizione avrebbe dato alla Chiesa il merito della condivisione e del sostegno alla pratica pacifista nonviolenta, ma fu forse il primo caso che rese sospetta l’indipendenza del giovane vescovo e gli impedì di fare carriera e privò la Chiesa delle sue grandi competenze.
La prima delle campagne di Pax Christi per la pacificazione dei conflitti – che oggi continuava negli interventi con cui Bettazzi alzava la voce contro l’assurda guerra ucraina – fu il Vietnam. Per contestualizzare ricordo che il card. Lercaro fu dimissionato a causa della sua denuncia dei bombardamenti americani in quella guerra. Nessuno sa più che nel 1954 per accordi solenni fatti a Parigi era stato deciso che l’Asia del Sudest, ex colonia francese, comprendeva quattro Stati indipendenti: il Vietnam del Nord, il Vietnam del Sud, il Laos e la Cambogia. I vietnamiti, per recuperare l’unità territoriale e morale dopo la divisione coloniale, divennero vietcong, “partigiani”: dal Nord, aiutato dall’Unione sovietica ben lieta di opporsi agli Usa, dovettero affrontare la guerra contro il Sud protetto dagli americani sempre in funzione strategica Est/Ovest. Il 27 gennaio 1973 gli americani dovettero firmare l’armistizio (anche se continuarono la guerra e i bombardamenti per altri due anni prima di andarsene): dopo milioni di morti, il Vietnam - un paese contadino povero che lottava per la sua libertà e che per i lunghi anni della guerra aveva coinvolto alla sua causa l’intero mondo democratico - aveva vinto. Pax Christi aveva per anni solidarizzato con il gruppo di preti cattolici che da Parigi sosteneva i cattolici del Sud contro la dittatura: era la posizione scomoda di chi, non comunista e per giunta preti cattolici, sosteneva la liberazione che veniva dal Nord comunista come diritto all’autodeterminazione condivisa. I cattolici italiani erano divisi e lo stesso Paolo VI intervenne a pensionare Giacomo Lercaro, uno dei migliori autori del Concilio cari al papa.
In seguito anche in America Latina furono titolo di merito della Pax Christi cinque dossier compilati da gruppi di studiosi di opposizione sulle condizioni di oppressione politica e violazione dei diritti elementari nell’America Centrale: Nicaragua, Guatemala, Salvador e Honduras, che furono oggetto di studio di politica internazionale. Anche quando i tempi si rilassarono per i complessi recuperi di democrazia in Cile e Argentina, ma anche in Brasile o nel Sudafrica di Mandela e Tutu, l’impegno rimase, forse più faticoso perché se si voleva continuare a sostenere le stesse cause nelle nuove libere prospettive bisognava studiare. Don Luigi si inventò il Centro Studi Economico/Sociali per dare a Pax Christi strumenti per approfondire i problemi del mondo modificato su cui posano le politiche della pace o della guerra. Non a caso aveva ricevuto – oltre alle lauree honoris causa e le cittadinanze onorarie (o il brevetto di guida alpina) - il premio dell’Unesco: un pastore che non si tirava mai indietro davanti ai lupi della corruzione, dello sfruttamento e della guerra, da uomo libero che promuoveva, laicamente e secondo la sua fede, i diritti, sia dei popoli che degli individui.
Facile per avversari e tradizionalisti accusare il “vescovo rosso”. Non si può mai definire ideologia la parresia. Ma, come papa Francesco, Bettazzi sentiva che il pastore assume le responsabilità della sua missione di uomo dell’accoglienza tutti, tutti, proprio tutti (Francesco), non della parzialità di chi presume fede la ripetitività acritica che può isterilire. La fede per avere futuro fatica con la vita. E la libertà dei figli di Dio è umile, ma scoperta, senza alibi per i confronti con i fratelli diversi e sempre fratelli. Bettazzi fu in questo obbediente alla Chiesa perché obbediente al Concilio di papa Giovanni, non più dogmatico ma pastorale, che – come tutti i concili – era stato convalidato dalla presenza dello Spirito che non può essere messo in discussione dai cercatori di eresie.
Se poi era anche, a suo modo, un buon politico (basta il carteggio con Berlinguer, notissimo perché Berlinguer rispose; non allo stesso modo i messaggi inviati ad altre personalità delle istituzioni che non risposero), lo doveva alla conoscenza della storia anche machiavellica della sua Chiesa e se non amava le ideologie era per la sua cultura filosofica. Tuttavia la categoria del “politico” gli era consueta nel senso originario, proprio del cittadino consapevole di diritti e doveri: verso la polis, vale a dire sempre del vincolo con gli “altri”, da rispettare evangelicamente e dei cui interessi prendersi cura. Il Vangelo era la sequela costante di vita, nell’amore per il prossimo, per i poveri, gli svantaggiati, le vittime di ingiustizia...
Non vale neppure la pena ricordarne la fedeltà, perfino nell’obbedienza alla sua Chiesa. Perfino nella “sua” consuetudine di raccontare barzellette. Non erano la debolezza di una personalità non priva di stranezze. Aveva certo le sue ragioni quando reagì (“non l’ha capita!”) dopo averne raccontata una a Giovanni Paolo II: le sue erano quasi sempre battute teologiche che coprivano le sue sorridenti “eresie”. Infatti si ostinava a ripeterle. Come quella del vecchio rabbi che chiede udienza a Dio per una sola, urgente, date le troppe interpretazioni, domanda: “come era stato in realtà il peccato di Adamo? “. La risposta è laconica “originale”: anche Dio al peccato originale non ci crede. Oppure quella, lunghissima su una possibile tappa della Madonna stanca dei tanti santuari: “e Medjugorje?” “Oh, sì, mai stata...”.
Mi piace chiudere con il Bettazzi profondo e sorridente, che sono sicura avesse ancora molte cose da dire. Non voleva che la Chiesa continuasse a credersi superiore alla scienza come quando aveva trascinato la Chiesa a credere per secoli che fosse il sole a girare attorno alla terra. Oggi il creazionismo non può negare all’evoluzione quel che gli è dovuto. Bisognerà studiare meglio le sue carte, le ultime, i contenuti dei dibattiti in videoconferenze, per non lasciare che l’epoca distratta involontariamente lo faccia morire di buoni ricordi...
Stiamo vivendo anni in cui tutto congiura per rendere opache le coscienze: bisogna resistere alla forza del tempo che – il vecchio fascismo non voleva che la gente pensasse – cementifica le memorie preziose dotate di quella forza morale ancora una volta scomoda. Ho pochi anni meno di don Luigi, ma fatico a recuperare non la memoria di tempi lontani, ma i sentimenti comuni che appassionavano il movimento reale delle persone che si facevano investire dai problemi come fossero passioni.
Nel lascito di don Luigi c’è molto da imparare. Perfino a rifiutare non solo ogni guerra, ma nemmeno quella difensiva: ascoltiamo e andiamo avanti.
Cristo ripete a ciascuno di noi: “Coraggio, sono io, non avere paura!”. Coraggio, cioè, perché ci sono io, perché non sei più solo nelle acque agitate della vita. Lo dice Francesco. Il vescovo Luigi Bettazzi è stato spesso “lasciato solo” ma non gli è mai mancato il coraggio dell’uomo libero.