di Angelo Reginato
Prosegue con Angelo Reginato, pastore della Chiesa Battista di Lugano, il confronto nato dal numero di Esodo "E fu sera e fu mattina", la genesi tra scienza e fede e le domande poste da Vittorio Borraccetti nel suo Tre riflessioni a partire dai racconti biblici della creazione.
Penso siano feconde le domande poste da Vittorio Borraccetti. Ognuna richiederebbe l’apertura di un cantiere teologico. Mi limito a esprimere alcune reazioni che hanno suscitato in me.
Condivido molte delle affermazioni fatte. In particolare, l’osservazione iniziale: “si pretende troppo da quel racconto”. Porremmo le stesse domande alla Divina Commedia? Qualcuno lo fa, ma una lettura critica del poema dantesco sa bene che è necessaria la sospensione dell’incredulità, lasciando che quelle parole plasmino in chi legge quel lettore implicito o ideale che l’opera desidera riconfigurare. Il poema, come ogni racconto letterario, non intende fornire informazioni ma dare forma a un mondo. Per la narrazione biblica, però, entra in gioco il suo statuto di “Parola di Dio” e l’interpretazione che le chiese, lungo i secoli, hanno avanzato in proposito. Penso che il nodo fondamentale stia proprio nella comprensione della natura della narrazione biblica. Prima di affrontarlo, seppur per sommi capi, occorre dire qualcosa sulla storia degli effetti di quelle narrazioni e sulle interpretazioni ufficiali fornite dalle chiese. Anche perché queste ultime continuano a parlare “nella pastorale comune, nella liturgia, cioè nella vita della Chiesa”. È vero: per molti credenti, di tutte le chiese, fa testo un’interpretazione dogmatica delle Scritture. Come teorizzato ai tempi della scolastica, la Bibbia viene intesa come miniera da cui estrarre i cosiddetti dicta probantia che avvalorano le tesi esposte nei trattati di teologia. E di essa si fa una lettura fondamentalista, ignara della differenza dei generi letterari, del tutto aliena a un approccio storico-critico. Penso che, alla radice di queste letture, non ci sia solo l’ignoranza - problema serissimo, che solo un’autentica “riforma” potrebbe affrontare - ma anche un certo interesse. Nel passato, l’interesse delle chiese nel tener saldo il monopolio della verità; oggi, l’interesse psicologico di cercare nella religione una “ideologia rassicurante” (J. B. Metz), in grado di fornire risposte certe e semplificanti a fronte di una complessità che disturba. Se prevale il bisogno di certezze, la lettura delle Scritture non potrà né suscitare domande né essere interrogata. Dove sei? e dov’è tuo fratello? - ovvero le due domande fondamentali del racconto dell’“In principio”, domande che aprono da sole squarci sul senso di quella narrazione – lasciano il posto alle affermazioni catechistiche sul Dio onnipotente, che governa saldamente il mondo da Lui creato.
Qui, più che il problema della plausibilità delle credenze e della loro compatibilità con la visione scientifica della realtà, la posta in gioco attiene allo sguardo acceso sul mondo e al “cuore” - inteso in senso biblico, come centro unificatore e cabina di regia dell’attività umana - da cui quello sguardo origina. Che sguardo accendono le chiese? E che cuore plasmano, oggi?
Ma vorrei provare a dire qualcosa sullo statuto dei racconti biblici. Affermare che quella narrazione è “Parola di Dio”, che quel Libro contiene la rivelazione di Dio, significa che il popolo d’Israele e i discepoli di Gesù hanno colto in quelle parole la verità divina sulle loro vite. Il riconoscimento è avvenuto “dal basso” e non come gesto autoritario che ha imposto quei libri e ne ha censurati altri (come suggerisce Dan Brown!). Un gruppo di persone si sono sentite “lette”, riconosciute da quelle parole di vita e le hanno giudicate “divine”, ovvero veicolo di una verità che il mistero del mondo chiamato Dio comunica all’umanità. Qui, per non fraintendere, bisognerebbe chiarire l’idea “antica” di verità, differente dalla nostra concezione positivista, da telecamera, ovvero di una verità che “fa”, non che “corrisponde”. Ma il discorso sarebbe troppo lungo. In ogni caso, si tratta di una verità esistenziale, per la quale chi legge è esattamente “l’altra metà del testo” (A. Manguel). Dunque, una parola che si presta a una “interpretazione infinita” (ma non “indefinita”: c’è un nocciolo duro del racconto, che nella lettura mette in campo una dinamica di “distanziazione”, prima di acconsentire alla “appropriazione” di chi legge). E non solo nell’atto di lettura: persino nella scrittura, la Bibbia si presenta come Libro plurale, come resoconto di una molteplice (a volte, dialettica) discussione. Di questa pluralità è avvolto anche il mistero del protagonista divino del racconto. Per non nominarlo invano, la Bibbia moltiplica le narrazioni a suo riguardo. E così troviamo una caratterizzazione “interventista” insieme con una che lo fa riposare dal suo operare, affidando agli esseri umani le sorti della storia. Nel racconto fondatore dell’Esodo, per cinque volte si dice che Dio indurì il cuore del faraone e per altre cinque che il faraone indurì il suo cuore. Una medesima dinamica è all’opera nei racconti della creazione.
Della stessa pluralità è avvolta la lettura biblica della storia: la categoria di “storia della salvezza”, che è propria di Luca, non totalizza l’intera narrazione biblica, che raramente procede in modo lineare e offre interpretazioni plurali degli eventi (anche della croce di Gesù e del suo significato “redentivo”: persino la parola “ultima” viene detta in modo “penultimo”, plurale!).
“E l’una e l’altra” sono “Parola di Dio” - suggerisce la tradizione ebraica.
Una volta chiarito questo, si possono aprire tutti i tavoli di confronto immaginabili: con le scienze, come con la magia, con il pensiero politico, come con la cultura narcisista. E si può farlo da credenti senza la pretesa di avere il monopolio della verità, dal momento che il Dio biblico viene narrato come “sempre più grande” di ogni comprensione raggiunta sotto il cielo. Lasciando, dunque, cadere ogni pregiudiziale concordismo (della serie “La Bibbia aveva ragione”!), in nome della pluralità degli sguardi accesi sull’unica realtà e dei molteplici linguaggi che provano a dirla. Ma anche non forzando la pur giusta esigenza di plausibilità: posso studiare la luna con metodo scientifico e, contemporaneamente, apprezzarne il significato poetico. E l’uno e l’altro. Senza semplificazioni e patendo la fatica di ricomporre l’infranto di linguaggi specialistici autoreferenziali, incapaci, allo stato attuale, di affrontare la dimensione della totalità e della sua sensatezza più o meno reale.
Gli interrogativi posti domandano una ripresa puntuale. Ma solo una volta chiariti gli equivoci sulla natura del testo biblico. Nelle Scritture ebraico-cristiane la teologia e la storia giungono a espressione come letteratura. Quest’ultima non fornisce solo l’involucro da rompere per giungere ai contenuti. Il mezzo è già il messaggio! E come sosteneva Paul Klee, “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.
Penso che, oggi, sia possibile un’altra lettura delle narrazioni bibliche, in grado di mettere a frutto il carattere narrativo, senza provocare cortocircuiti con altri linguaggi - la scienza, certo, ma non solo - dialogando, invece, con essi, senza pregiudiziali di sorta.