di Vittorio Borraccetti
1. La riflessione su Genesi tra fede e scienza mi è sembrata un tentativo di dare al racconto biblico della creazione un significato che da una parte non contraddica lo stato attuale della nostra conoscenza dell’origine dell’universo e della storia dell’umanità e dall’altra corrisponda alle nostre sensibilità e aspirazioni etiche. A mio modo di vedere, così facendo si è preteso, e si pretende, troppo da quel racconto.
Nei secoli le generazioni che ci hanno preceduto hanno letto il racconto, comunque, nel senso di ritenere l’universo creato da un Dio personale secondo leggi ordinate. Da tempo abbiamo smesso di credere che quel racconto sia la storia dell’origine dell’universo.
Perché sentiamo il bisogno di ricavarne una lettura che dia un significato di verità (è così?) a quel racconto mitico? Non sarebbe sufficiente prendere atto che quel racconto è un mito, come ne esistono altri in altre culture, dal quale certamente si possono trarre significati sapienziali a seconda della lettura che se ne dà nelle diverse epoche storiche? Mi sembra che nelle interpretazioni proposte in alcuni saggi (come quelli di Geroldi e Ricca, oltre all’introduzione) ci sia un presupposto non detto, che trattandosi della Parola di Dio quel testo non possa essere trattato come altri miti e debba avere un significato autentico, svelato dalla successiva venuta di Gesù Cristo e dal suo annuncio. In altre parole, le interpretazioni presuppongono la fede. In questo modo tutti i ragionamenti sono già orientati, non c’è un vero confronto con altri punti di vista, con chi pensa che quei testi siano, piuttosto che parola di Dio, parola degli uomini su Dio. Nel suo intervento in in videoconferenza del 22 febbraio, J.L. Ska ha interpretato l’espressione parola di Dio nel senso che i testi cui è riferita sarebbero d’importanza fondamentale per il popolo di Israele. A me sembra una lettura più convincente di quelle dogmatiche, che rimanda al tema dell’interpretazione del testo.
In alcuni saggi e nell’introduzione si critica la concezione tradizionale di un universo perfetto costruito secondo leggi universalmente valide, così si dice che il mondo è creato da Dio che poi lo lascia andare. Si attribuisce all’influenza della cultura greca l’idea della creazione dal nulla, della natura come prima rivelazione del Creatore, della natura che segue la logica razionale del Verbo. Ricordo che l’azione creatrice del Verbo sta nel prologo del Vangelo di Giovanni. E poi mi convince poco considerare la cultura greca come un ostacolo alla piena comprensione del pensiero biblico, anche perché mi pare difficile rintracciare un pensiero biblico puro e autentico.
Sempre Ska ha sottolineato che l’interpretazione è opera di chi legge, inevitabilmente influenzato dal tempo in cui vive e dalle culture del tempo in cui vive (che peraltro, abbiamo sentito, influenzano anche gli autori dei testi, a cui interessa fondare il mito originario di Israele).
Il che significa che non c’è una verità nascosta, ma che nel corso del tempo ciascuno trova nel testo un significato. Se è così e se le interpretazioni passate erano tributarie delle concezioni del cosmo terracentriche e antropocentriche, bisognerebbe superarle definitivamente. Il che non mi sembra ancora avvenuto.
Si dice che l’idea miracolistica, provvidenzialista e creazionista non sia più attuale tra gli esegeti e teologi. Forse non è del tutto vero e a mio parere non è facile abbandonarla del tutto, alla luce di molti passi anche del Vangelo. Inoltre, certe teologie ecologiche in fondo pensano a una natura buona di per sé. Ma è certo che nel catechismo, nella “pastorale comune”, nella liturgia, cioè nella vita della Chiesa, quell’idea persista e non sia secondaria o trascurabile.
2. L’idea di un Dio creatore porta con sé l’idea di un Dio trascendente e personale che opera la salvezza. Nella sua relazione in videoconferenza Ska ha parlato di un Dio che non sta in alto ma in basso, di un Dio immanente. E quanto alla salvezza che essa, a ben guardare, alla fine esige l’intervento di uomini; esempio importante: per la liberazione dall’Egitto Dio suscita Mosè.
Colpisce la concezione di un Dio immanente, rispondente alla sensibilità di molti, ma avrei voluto chiedere a Ska, come si concilia questa concezione con l’idea di un Dio personale, che mi pare esista nella Bibbia. In realtà nella Bibbia quel Dio personale interviene direttamente nella storia del popolo. Certo suscita Mosè, ma poi interviene a convincere il Faraone a lasciare andare il suo popolo... e non richiamo molti altri racconti d’intervento personale. Difficile poi negare che l’incarnazione sia un intervento diretto di un Dio personale nella storia degli uomini…
3. Dicevo della critica all’idea del mondo creato perfetto. Si scrive che “le scienze oggi mettono in discussione la razionalità e ordine della natura”, per confutare l’idea tradizionale di un universo ordinato, creato da un Dio secondo un preciso disegno, mentre non sarebbe così. In linea di massima è difficile non essere d’accordo.
Accanto alla creazione imperfetta, c’è poi il problema del male, della sofferenza, dovuti sia alla precarietà della condizione di vita degli uomini, alla malattia, alla morte, all’aspetto talora ostile della natura. E al male che gli uomini si infliggono reciprocamente e che contrassegna tutta la storia dell’umanità.
C’è da chiedersi: l’imperfezione, il male sono conseguenza di una creazione non ordinata, la storia dell’umanità con le sue sofferenze è dipesa dall’assenza di perfezione originaria o è conseguenza di un agire disordinato degli uomini? Il dilemma non è da poco e non credo sia superabile affermando che la storia della salvezza non può essere irrigidita nello schema creazione – caduta – redenzione (così nell’introduzione).
Sottoposta a critica l’idea di un mondo perfetto e di un Dio che crea leggi valide e universali, presa consapevolezza dell’imperfezione del mondo creato e della vastità del male, si cerca salvezza nell’idea di un Dio che condivide la sofferenza dell’umanità. Un Dio che accetta la sfida, si mette in discussione, colloquia con l’umanità, come la vicenda di Giobbe dimostrerebbe. Posso con molta umiltà dire che a me sembra che in quel libro non sia Dio a colloquio con l’umanità, ma semmai il contrario, con domande e risposte di uomini a uomini, alcuni dei quali pensano di interpretare il pensiero di Dio?
Di fronte alla difficoltà di affermare la perfezione del creato e un Dio creatore che sostiene il mondo, e all’esperienza del male e della sofferenza si scrive che è lasciato all’uomo dare “senso e forma all’imperfezione” secondo “l’immagine biblica di creare dando i nomi attraverso la parola”. Così facendo l’uomo si impegnerebbe a “realizzare la speranza di Dio”. Queste parole mi colpiscono, sembrano rovesciare la storia, tocca noi salvare il mondo imperfetto di Dio. Nello stesso tempo, con qualche non secondaria precisazione, le condivido con convinzione perché dicono che solo con il nostro impegno renderemo il mondo migliore.
Ma nei limiti del nostro essere umani. Non si può pensare che gli uomini con la loro precarietà e i loro limiti possano dare senso e forma all’imperfezione dell’universo. A malapena si può pensare che l’umanità sia capace di dare senso e forma a se stessa.
Ma sul piano della religione e della fede, come si concilia questa tesi con tutta la storia della salvezza, con la colpa originale, con un Dio che diventa uomo e ci redime con la sua morte in Croce? Perché c’è bisogno che venga il Salvatore? Perché c’è bisogno della crocifissione?
È con il racconto complessivo della storia degli scritti che compongono la Bibbia che bisogna fare i conti, con quella che è stata chiamata e dovrebbe ancora essere la storia della salvezza, che costituisce tuttora la realtà dell’esperienza dei credenti, della chiesa, che si esprime, al di là del catechismo e della teologia, nella liturgia dei sacramenti. È questo racconto che avrebbe bisogno d’interpretazioni e rappresentazioni che tengano conto delle attuali conoscenze dell’universo e della storia dell’umanità.
Il vaglio della ragione, basato sulla conoscenza, non può essere rifiutato anche sui contenuti di una religione o di una fede, perché diversamente si può legittimare la fede in qualsiasi cosa. Ecco perché mi sembra legittimo continuare chiedere se siano plausibili, sulla base di quel conosciamo dell’universo e dell’uomo, non l’apertura al mistero o la fede in una qualche forma di sopravvivenza dopo la morte, bensì i molteplici contenuti della fede cristiana. E se sia possibile, oltre che necessario, declinarli oggi, lo ripeto, in termini che non stridano con la conoscenza del mondo e della storia dell’umanità.