di Paolo Naso e Brunetto Salvarani
Come abbiamo spesso riferito sulle pagine di Esodo, ci sembra un dato di fatto che, dopo anni di sostanziale impronunciabilità, la parola dialogo stia riprendendo a comparire con una certa frequenza nel linguaggio delle chiese. Esempio evidente di ciò quanto accaduto fra il 4 e il 5 febbraio scorsi [2019, ndr], nel palcoscenico fiabesco degli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi. Dove papa Francesco e il grande imam di al-Azhar - principale centro culturale sunnita al mondo, sito al Cairo - hanno firmato insieme un documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, assai denso, se esercitiamo la virtù cristiana della speranza, di potenzialità benefiche.
Il coraggioso pellegrinaggio papale, una prima volta per lui e per la storia del pontificato nella penisola arabica, ha avuto un paio di momenti cruciali: lunedì, quando Bergoglio e Ahamad al-Tayyb (filosofo e teologo, formatosi alla Sorbona di Parigi e all’università di Friburgo in Svizzera) hanno sottoscritto quel testo, e poi l’eucaristia, insperata e toccante, la prima all’aperto, sotto un’enorme croce che pure è vietata all’esterno in quel Paese, martedì. Al primo evento hanno partecipato centinaia di esponenti delle diverse fedi mondiali: cristiani di varie confessioni e musulmani, soprat- tutto, ma anche poi ebrei, buddhisti, hinduisti e sikh. Al cuore degli inter- venti è risuonato l’invito a uomini e donne delle proprie comunità perché traggano dalla religione non pretesti di contrapposizione, e tanto meno di guerra aperta, bensì motivi sufficienti per vivere fianco a fianco in pace e nel rispetto di tutti.
Fra le tante interpretazioni che si potrebbero dare al riguardo, ne scegliamo due.
In primo luogo, il viaggio papale, breve ma intenso, si è svolto, per esplicito richiamo da parte del protagonista, sullo sfondo integratore del filo di una memoria ottocentenaria, spesso evocata quale cifra di un incontro possibile fra cristiani e musulmani in dar al Islam. Otto secoli fa, infatti, nel 1219, dopo un capitolo focalizzato sulla missione in Europa e agli infedeli, Francesco d’Assisi ebbe buon gioco nel riprendere in esame un suo vecchio sogno missionario sino ad allora abortito, imbarcandosi finalmente da Ancona il 24 giugno e raggiungendo, dopo qualche mese, la terra d’Egitto. Giunto a Damietta nel campo crociato che assediava la città (di cui assisterà alla presa), egli tentò innanzitutto di far cessare i combattimenti: “di fronte alla cristianità in armi – commenta Chiara Frugoni – che solo con la forza pensa di poter riscattare i luoghi santi, di fronte alla Chiesa che chiude il dissenso con la violenza e la morte, Francesco ha parole diverse e dissonanti, anche se tratte come sempre dal Vangelo”.
Molteplici sono le chiavi di lettura di quel soggiorno, che concordano però sul fatto che il Nostro si sarebbe recato, con un compagno (fra Illuminato), approfittando della tregua d’armi estiva, presso il sultano Al-Malik al-Kamil, il Sultano perfetto, con l’intenzione di convertirlo o arso da “sete del martiro”, come si esprime Dante (Paradiso, canto XI, v.100), o chiedendo la cessazione delle ostilità. Nessuna delle tre cose avverrà: ma le fonti concordano nel descrivere il trattamento benevolo con cui i due frati sarebbero stati ricevuti e persino l’ammirazione del sultano nei confronti delle parole – che pure non conosciamo - di Francesco. Il quale, dopo l’Egitto, si recherà in Siria e in Palestina, dove compirà un pellegrinaggio a Gerusalemme per poter vedere da vicino i luoghi delle gesta di Gesù.
Un episodio che, del resto, rappresenterà il contesto più adeguato del sedicesimo capitolo della Regola non bollata, di lì a poco (intitolato “Di coloro che si recano tra i saraceni e altri infedeli”): “I frati che vi si recano, in due modi, in mezzo a loro, possono comportarsi spiritualmente. Un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano sottomessi a ogni umana creatura per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che è gradito al Signore, annuncino la parola di Dio, affinché essi credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito santo, creatore di ogni cosa, nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati e si facciano cristiani, poiché chi non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio”. Parole che saranno significativamente chiosate dal cardinal Martini, nel suo discorso dal titolo Noi e l’islam (1990). Non a caso, del resto, Assisi – dalla marcia pacifista di Aldo Capitini nel 1961 al raduno delle religioni per la pace voluto da Giovanni Paolo II nel 1986 – resta, simbolicamente, la capitale della ricerca di un pianeta pacificato, sul piano civile e religioso.
Un secondo elemento, nel merito dell’evento. Ha ragione Francesco, quando, durante il viaggio di ritorno, ha risposto alle domande dei giornalisti, rivelando quella che va considerata l’ermeneutica del documento cofirmato e dell’intera duegiorni: l’incontro, per molti versi storico, si è posto infatti sull’onda lunga del concilio, a mezzo secolo dalla sua celebrazione. Ed è per questo che, comprensibilmente, quanti si pongono, all’interno della chiesa cattolica, più o meno dichiaratamente, all’opposizione del Vaticano II, hanno subito gridato allo scandalo e al tradimento.
Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non può che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole giuntici da Abu Dhabi, che quello schema hanno definitivamente reso obsoleto. Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adot- tare quella, ancor più impegnativa, della fraternità, termine strategico nell’esperienza dello stesso Assisiate che per primo decise di appellare i suoi compagni fratres (“Il punto di partenza - ha detto il papa nel discorso al Founder’s Memorial - è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio. Essa ci dice che tutti abbiamo uguale dignità e che nessuno può essere padrone o schiavo degli altri”). Mentre il documento recita che “la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare”, e che è la stessa volontà di Dio (qui si riecheggia una celebre sura del Corano) a volere il pluralismo e ogni diversità, di religione, di colore, di genere, di lingua. In una prospettiva che, si direbbe, supera addirittura il paradigma inclusivista, nel rapporto fra cristianesimo e religioni, e apre le porte, più o meno consapevolmente, a quello pluralista.
Un’esperienza, quella della potenziale fratellanza, beninteso, oggi non priva di contraddizioni; ma anche, se reale e non immaginaria, capace di farsene carico. Perché essere fratelli – e sorelle – non è solo un dato biologico o anagrafico (quando lo è), ma una meta da conquistare, giorno dopo giorno, spesso a fatica e a prezzo di parecchie sofferenze. Come mostrano tante storie bibliche (una su tutte, la saga di Giacobbe ed Esaù); ma anche la storia, accidentata, problematica eppure altresì ricca di esempi positivi e poco studiati, delle relazioni fra cristiani e musulmani. Rispetto alla quale siamo chiamati a educarci a diventare fratelli (e sorelle), se s’intende prendere sul serio l’invito dei padri conciliari: “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate 3).
Non è detto che la cosa funzioni, soprattutto in tempi brevi: nella vicenda biblica evocata, ad esempio, Giacobbe ed Esaù riusciranno nell’impresa di riconciliarsi dopo numerose reciproche ferite, pagando peraltro prezzi immani; mentre Lia e Rachele, mogli del patriarca, non ce la faranno, e la loro parentela rimarrà sulla carta, senza tradursi in vita vissuta. In questo senso, Abu Dhabi, ce l’auguriamo, è stato un primo passo per annusarsi, per rendersi conto che l’altro – piaccia a no – è parte di noi, e per imparare a camminare insieme.