di Matteo Menegazzo
Un manoscritto vecchio di vent’anni riemerso da un qualche scaffale dello studio di un giornalista, che rivela le memorie di un monaco ormai morto, che ha fatto un lungo viaggio formativo pur trascorrendo la vita tra “la cella, il coro, la biblioteca”. Potrebbe trattarsi della quarta di copertina di un romanzo d’avventura per ragazzi, invece è ciò che ci racconta Raniero La Valle, curatore del volume Benedetto Calati Il monaco della libertà.
Il testo è il resoconto della Conversazione avvenuta il 25 gennaio 1994 in occasione della conclusione del servizio durato diciotto anni da priore di Camaldoli di Benedetto Calati, Guido Innocenzo Gargano, a sua volta monaco camaldolese e suo discepolo e Filippo Gentiloni, giornalista esperto di tematiche religiose per il Manifesto, frequentatore di Camaldoli.
Il testo ci racconta, attraverso la bella scrittura di Raniero La Valle e il nudo resoconto stenografico del dialogo tra i tre conversatori, il viaggio formativo, un “esodo” viene definito, faticoso, fonte di paura, di sofferenza, di dubbi e ripensamenti che ha portato Benedetto Calati ad essere il “monaco della libertà”, il punto di riferimento nella vita di tantissime persone, il padre saggio e buono.
Con esodo si intende un cammino spirituale che ha portato Benedetto dalla soggezione alla libertà, sempre fuori, sempre più in là, abbandonando continuamente certezze e convinzioni, curando ogni tappa, ogni stazione (per dirla alla Bonhoeffer) con studio, riflessione, preghiera, sempre proiettati verso un futuro che non è subito ma costruito. La meta, la libertà non arriva durante, come illuminazione, colta per strada, ma alla fine, come frutto maturo. La Valle scandisce il percorso in cinque tappe, cinque fasi cronologiche ma anche tematiche.
- L’infanzia e gli anni ’20 sono difficilissimi. Giggino, è il suo nome da laico, nasce a Pulsano, in Puglia, nel 1914 da una famiglia poverissima e molto religiosa, cresce tra preti per lui significativi ma anche preti pedofili. Il primo esodo è a dodici anni, dalla famiglia e la chiesa del paese al convento dei carmelitani di Misagne dove acquisirà uno strumento importante: lo studio della lingua latina.
- Ma questa vita non lo soddisfa e a sedici anni abbandona il convento per Camaldoli: il noviziato e l’impatto con una comunità rigida dalla vita molto dura (“guardavo la distanza tra Arezzo e Taranto sulla carta geografica e dicevo: ma che ho fatto, che ho fatto”).
- La terza fase è quella della formazione. Siamo nell’arco temporale che va dagli anni ’30 e ’50, durante i pontificati di Pio XI e Pio XII, durante il fascismo, in una fase della chiesa antimodernista, gerarchica, improntata sulla teologia scolastica, in cui la Bibbia non si leggeva mai. L’ordine chiudeva la missione in Brasile e propendeva per la tendenza eremitica a scapito del contatto con la gente nel cenobio e della presenza tra il popolo. La riserva eremitica era concepita come un’aristocrazia religiosa, al di fuori della società e della storia, in un rapporto di isolamento connivente col fascismo, a rappresentare quella gerarchia che dominava la terra. Benedetto conosce Anselmo, priore critico nei confronti di questa vita monastica, e da lui stimolato, si chiude nella biblioteca di Camaldoli, poi a San Gregorio al Celio e a Fonte Avellana aggregati a Camaldoli, e qui legge, ricerca, studia. Gli Annali camaldolesi, i Padri della Chiesa letti in latino (in particolare San Agostino e San Gregorio Magno lasceranno il segno), la Bibbia letta al modo dei Padri, e selezionando i libri “fiutando tra Gesù Cristo e La Bibbia”.
- La quarta fase dell’esodo ha due parole chiave: storia e libertà. La storia è quella vera, del mondo contemporaneo, degli uomini e delle donne, della politica. Siamo ne 1951 a Roma, a san Gregorio al Celio dove Benedetto è procuratore generale, professore all’ateneo di Sant’Anselmo. Va a fare catechesi nella centrale parrocchia della Navicella, e qui conosce il gruppo di filosofi capeggiati da Felice Balbo, i così detti cattolici comunisti, nel gruppo anche dirigenti dell’IRI. L’amicizia era improntata sul confronto sulle tematiche religiose, sulla lettura dei testi biblici, sulla lectio come incontro personale e adesione ad un progetto di Dio, sull’approfondimento, al di là del pensiero politico. Arrivano le stimolanti frequentazioni con La Valle, La Pira, Dossetti, Baget Bozzo, Fanfani (“non erano i chierici ai quali insegnavo [...] e crescevo [...] e mi liberavo”). Molti chiedevano consigli sulle scelte politiche. Emblematico del livello di amicizia e di libertà di pensiero fu l’episodio in cui Raniero La Valle confessa la sua candidatura nel partito comunista, una vera provocazione che pone il gruppo di cattolici in una posizione delicata. La risposta di Benedetto fu:” La gerarchia non ha nulla a che fare qui, ciò che conta è la coscienza, la tua coscienza.”
- Il quinto e decisivo esodo, la quinta fase di maturazione, riguarda il rapporto con la fede, con le Scritture, con la Chiesa. Protagonista assoluto di questa stazione è il Concilio Vaticano II. Benedetto è recettivo, è l’emblema della nuova chiesa, ma è timoroso e molto rispettoso, obbediente. Quindi deve subire dei momenti di forte crisi. Interessante il racconto del curatore, troppo lungo da riportare, sulle lotte interne al convento, oltre che nell’animo di Benedetto, prima di arrivare all’accantonamento del tanto amato canto gregoriano e l’introduzione durante la messa dei canti in italiano accompagnati da chitarre. Benedetto dirà: “La mia umiliazione era che noi cantavamo il gregoriano davanti ai laureati che con le braccia conserte assistevano ad un concerto. [...] Di fronte a una Chiesa che prega, avrei bruciato tutti i gregoriani immaginabili”. San Gregorio al Celio fu la prima chiesa in cui si rimosse l’altare del ’700 per addossarlo al muro. “Non dormivo la notte, sognavo scontri col cardinal Siri”. Ma al di là della liturgia e della forma, Benedetto fa sua la Libertà di cambiamento nella prospettiva della Chiesa: ecumenismo, ecclesiologia di comunione, dialogo con le altre religioni.
Benedetto fa sintesi fra gli spunti del Concilio e la sua formazione. Il Concilio dà il primato alla Parola di Dio e Benedetto allora critica la mistica, rilegge la Tradizione che non va accettata a scatola chiusa.
Riprende i suoi punti di riferimento: Agostino, ma specialmente Gregorio Magno. Gregorio è protagonista di un ripensamento della missione della Chiesa nel periodo di crollo dell’Impero romano: circondata dai barbari, gli altri, la Chiesa costantiniana non è adeguata, deve andare, uscire fuori. In lui Benedetto trova la chiave di lettura: è l’amore, la carità la chiave ermeneutica della Parola di Dio contro il letteralismo. Ed eccolo di fronte al problema più grande: la libertà dalle scritture, la libertà dalla tradizione interpretativa della Chiesa. Questa frase di Benedetto è emblematica: “È chiaro che non posso accettare tutti i Salmi, il letteralismo dei Salmi e degli altri Libri, mi rifiuto, soprattutto nel momento in cui noi ci poniamo come segno di un compimento, ossia a questo punto Gesù non è il Gesù dei Cristiani, è un Gesù veramente universale, perché la legge di Gesù è l’amore a Dio e al prossimo".
Questo travagliato percorso ha reso di Benedetto il “Monaco della Libertà”, oltre che un punto di riferimento a Camaldoli, un uomo che in molti, a partire da Raniero La Valle, hanno chiamato padre, non spirituale come ci si potrebbe attendere da un monaco, ma che considerava i propri figli spirito e carne, persone vere. Era un padre buono, dalla grande capacità di ascolto, che guardava chiunque con amore, perdonava e assolveva tutti. Accoglieva chiunque chiedesse consigli, ascoltava chi gli si ponesse con sincerità, laici o monaci che fossero. Ha sposato, senza indecisione, Giuseppe Barbaglio, ex sacerdote e teologo, sebbene la cosa non fosse ben vista nella chiesa. Alla sua morte una delle persone che lo seguivano disse: “Se padre Benedetto era così buono, figuriamoci come deve essere Dio”. Dall’intervista che ha la forma di un dialogo molto serrato e quindi con frasi il cui senso è difficile da cogliere se non nel contesto, segnalo comunque alcuni estratti come assaggi gustosi che mettono in luce il pensiero di Benedetto su alcuni temi importanti per lui, ma anche per me, lettore in perenne ricerca, costretto in una problematica fedeltà a una Chiesa difficile da abbracciare in toto ma anche impossibile da mettere da parte.
Sul celibato dei preti. “E Giuseppe Barbaglio?” chiede Innocenzo. Benedetto risponde” Giuseppe un giorno a Camaldoli mi disse che si era innamorato di Carla. Io gli ho detto “pensaci bene, ma qui c’è la libertà. [...] Cammin facendo scoprivo una ministerialità celibataria che è un assurdo. Vedevo la forzatura di un celibato obbligatorio. I casi specifici mi educarono. Con Giuseppe divenimmo sempre più amici e quando mi disse che lui e Carla volevano sposarsi, dissi va bene e li sposai io.” [...] Il celibato va accettato volontariamente con una maturità affettiva non comune, ma mai può essere oggetto di una legge. [...] Il monacato è un cammino particolare, e anche qui ci deve essere tutta una propedeutica e un’educazione, ma per i preti no. L’ho visto in Africa: tutti hanno una doppia vita, vescovi compresi. In Africa la genitalità la vedi ovunque, il celibato non viene proprio capito. Ma se lo chiedi a un vescovo, ti risponde che il problema non c’è. C’è grande disonestà in queste risposte, oltretutto completamente fuori dalla cultura. Innocenzo chiede: “Se tu incontrassi adesso un prete o una suora in difficoltà, cosa gli diresti?” risponde:” Che prima di tutto c’è il Vangelo, la libertà evangelica insegna la centralità della coscienza, che significa la presenza dello Spirito Santo in noi. La responsabilità è personale. A questo punto per prima cosa direi di fare attenzione, c’è un lavoro? Te la senti di cambiare a quarant’anni? Ma come seconda cosa direi: fai ciò che la tua coscienza ti dice.” “E l’impegno del voto?” Ribatte Innocenzo. “Davanti alla coscienza il voto va riveduto”. Risponde Benedetto. Non è una rottura, qui c’è la libertà di Gesù, questa è la libertà del Vangelo; se il Vangelo non è questo, io dico che è annullata la legge del Vangelo. C’è rottura con la Legge, non con lo Spirito.”
Riprendendo ancora il punto dove si parla delle Scritture, Benedetto cita Gregorio Magno, e prendendo spunto dalla celebre frase “La Scrittura cresce con chi la legge”, dice: “la Bibbia deve essere correttiva di se stessa, [...]la Bibbia è maestra di una parola che scende nella storia, va letta nelle varie interpretazione che una Chiesa storica si pone di fare. Il problema è che la Chiesa cattolica lo fa con enorme autoritarismo, il centralismo papale è sempre dogmatizzato. [...] Il Nuovo Testamento va collocato nel Primo, e del Primo Testamento non si può fare di tutta un’erba un fascio. L’esodo e l’esilio determinano l’interpretazione ermeneutica che è di insegnamento per tutte le chiese. L’esilio è purificatore e pone Israele come evengelizzatore (Isaia,Ezechiele): il monoteismo che si permea di Sapienza. L’esilio innesta nella storia il Nuovo Testamento. A questo punto si potrebbe perdere tutta la teologia del tempio, la teologia veterotestamentaria. Con le tentazioni, Gesù rifiuta la tentazione di un Dio veterotestamentario e apre a un messianismo di carattere universalistico, nella missione tra i poveri verso la croce e la Pasqua. Pasqua e Spirito Santo, la libertà”. In questa lettura l’Antico Testamento diventa profezia.
Ancora sul fecondo rapporto coi laici: “Qui scoprivo cammin facendo, tutta la storia, per esempio questi uomini che stavano fuori della Chiesa ed erano più cristiani di me. Ecco perché quando ho incontrato
Rossana Rossanda volevo dirle: scopri Gesù e basta, lascia perdere la Chiesa. La tradizione della Chiesa, l’Istituzione, in questo contesto non crolla, ma prende una funzionalità esclusivamente pedagogica.” Riguardo agli intellettuali di sinistra “Non hanno mai rotto con la Chiesa, sono stati critici nei confronti dei monolitismi, dei centralismi, dell’opposizione alla persona, della chiusura, della prudenza clericale, della mancanza di libertà.
Vale la pena soffermarsi sul suo racconto del Concilio. “Si era creata una situazione catacombale, i teologi più qualificati erano stati messi da parte, per così dire sospesi, dal pontificato di Pio XII. [...] Io constatavo una situazione di ignoranza spirituale in molte espressioni della vita ecclesiastica. Nei lunghi discorsi di Pio XII non si citava mai la Bibbia, mai. [...] Anche i documenti preparatori del Concilio erano certamente negativi, erano basati sul Vaticano I e sulla formula giuridicistica. Si sperimentava che la Chiesa era in mano di quel gruppo di persone che bloccava tutto. Mentre qui a San Gregorio convergevano tutti: Turoldo, Balducci, Balbo, Dossetti e si approfondiva il discorso. [...] Ma poi inaspettato arrivò il pontificato di Giovanni: si pensava che il pontificato di Roncalli fosse destinato ad essere insignificante, tutti speravano in un pontificato diverso. Sto rileggendo le lettere di papa Giovanni, ci troviamo di fronte ad un uomo. Il papa doveva diventare una figura mitica e per far questo doveva rinnegare famiglia e amicizie. Papa Giovanni, parlava di cosa aveva mangiato, raccontava di star bene, delle sue origini contadine, era nella storia. [...] La Curia aveva tentato di monopolizzare tutto, aveva predisposto le commissioni. Ma accadde un fatto inaudito che mi colmò di speranza. L’intervento del cardinale Lienart, vescovo di Lille, prese la parola sullo schema De Ecclesia, ma fece saltare il testo, e il papa gli diede ragione. Qui si verifica il passaggio della leadership conciliare della Curia, alle Chiese locali, la Chiesa francese, il movimento dei preti operai, il cardinale Suhard, la chiesa belga anche se questo è stato paralizzato. Ma si stabilì una nuova dialettica che fece esplodere lo scontro con la Curia e bloccò il progetto curiale. Il Concilio sfuggì di mano alla Curia. E attraverso l’intervento episcopale la mano passa al popolo di Dio, che poi era la gente, quella meno vicina al clero, che però avvertiva il discorso del Concilio. E qui c’è il grande ruolo della stampa. Raniero La Valle, col suo Avvenire d’Italia fece un servizio enorme. [...] Quando Giovanni morì ci fu grande commozione, ma anche la possibilità che il nuovo papa potesse chiudere tutto: il cardinale Siri diceva che ci sarebbero voluti cinquant’anni per correggere i danni causati dal Concilio e specialmente da Giovanni XXIII. Paolo VI, diede continuità. Ciò che mancò fu la collegialità: le chiese locali sono rimaste in nomen”.
Infine, riprendendo Raniero La Valle, non è possibile esimersi da un parallelismo fra la Chiesa dell’esodo di Benedetto, e la Chiesa in uscita di Francesco. Possiamo dire che Benedetto abbia anticipato Francesco con la concezione di una Chiesa che, spinta e sorretta dal Vangelo di Cristo, è completamente rivolta al povero, al prossimo, lontana e libera da dogmi, giochi di potere e dal clericalismo. La Valle si chiede che fine farà Bergoglio e la sua Chiesa. Sappiamo però come è andato a finire l’esodo di Benedetto: un uomo che ha vissuto in perfetta pace e con la coscienza indivisa.
Speriamo che ciò sia di buon auspicio.