di Paola Lazzarini Orrù

Pur non essendo particolarmente interessata allo star system hollywoodiano, c’è un caso che mi sta coinvolgendo molto negli ultimi mesi: si tratta della disputa che oppone la potente coppia Ryan Reynold e Blake Lively al molto meno noto attore, regista e produttore di origine ebrea e italiana Justin Baldoni. La questione è ampia e ruota attorno a un film sulla violenza domestica (“It ends with us”) tratto dal libro omonimo di cui Baldoni ha acquisito i diritti e che ha poi prodotto, diretto e interpretato. L’attrice protagonista, Blake Lively, ha – nel corso della produzione e post produzione – avanzato sempre maggiori richieste di controllo, fino ad arrivare a impedire a Baldoni di presenziare alla prima del film, con la minaccia che se lui fosse stato presente lei e il famosissimo marito l’avrebbero boicottata. In tutto questo la Lively ha condotto una campagna di promozione del film non parlando mai di violenza domestica, ma utilizzando le occasioni pubbliche per promuovere la propria marca di shampoo e – cosa ben peggiore visto l’argomento – di superalcolici. Nei mesi estivi i social si sono scatenati a causa di questi suoi atteggiamenti, rivangando vecchie interviste che ne dimostravano il carattere difficile e Lively per tutta risposta ha denunciato Baldoni di aver orchestrato una campagna di diffamazione contro di lei e per averla abusata sessualmente nel corso delle riprese.

Attraverso la pubblicazione online di un numero impressionante di prove, Baldoni è stato assolto dall’opinione pubblica ben prima di arrivare in tribunale, ed è qui che la cosa si fa interessante per me.

Solo pochi anni fa, dopo l’onda d’urto del MeToo, un’accusa del genere avrebbe rappresentato la fine della carriera di un uomo ad Hollywood, ma oggi? Oggi assistiamo in diretta alla rapidità con la quale i movimenti sociali oggi nascono, crescono e s’infrangono.

Possiamo riassumere il ciclo vitale dei movimenti in cinque fasi:

  1. Fase di Emergenza (innesco): se l’espressione MeToo viene coniata nel 2008 nell’ambito della difesa delle donne afroamericane, diventa virale nel 2017 quando un’attrice bianca Alyssa Milano lo rende tale parlando degli abusi del produttore Harvey Winstein. Il movimento nasce quindi in risposta a un problema sociale reale (abusi e molestie sul luogo di lavoro). Dopo un primo momento di rifiuto, emergono sempre più casi e anche il termine diventa conosciuto grazie a eventi mediatici e testimonianze di alto profilo.
  2. Fase di Crescita Esponenziale (affermazione): il movimento guadagna consenso e legittimazione pubblica, si consumano le prime condanne, mentre cresce il numero di denunce e il dibattito pubblico si intensifica. Il movimento diventa globale con campagne affini, come “Hermana Yo sì te creo”.
  3. Fase di Saturazione (mainstream): il movimento raggiunge il suo apice di attenzione e consenso, è ormai entrato nella sensibilità collettiva ed è a questo punto che iniziano ad emergere narrazioni più complesse e il movimento diventa “mainstream”, quindi più esposto a critiche e strumentalizzazioni.
  4. Fase di Contraddizione: il successo del movimento induce a pensare che ormai sia tutto acquisito e questo porta con sé il rischio che alcuni opportunisti possano usarlo per scopi personali, ad esempio facendo accuse false. Ritengo che il caso Lively-Baldoni rappresenti esattamente e viralmente questo momento. La conseguenza è che si genera una reazione sociale tale che alcuni arrivano a mettere in discussione la legittimità del movimento stesso. In America, lo stiamo già vedendo, si parla della fine del MeToo.
  5. Fase di Declino o Trasformazione (riflessione): a questo punto veniamo a quello che potrà o meno essere il futuro del movimento che sta affrontando una crisi di credibilità. Dovrà adattarsi e rinnovarsi o perdere rilevanza perché il sistema tende naturalmente a preservare se stesso e tornare alla propria forma originaria.

È difficile ora prevedere quale sarà il futuro della lotta alla violenza contro le donne in un mondo sempre più testosteronico e belligerante, non sappiamo se il movimento troverà una modalità più sostenibile nel lungo periodo, identificando ed espellendo per primo le spinte opportunistiche che emergono al proprio interno o se dovremo rassegnarci a perdere alcune delle importanti acquisizioni che questo movimento ha portato, ma vorrei partire da questa situazione per riflettere su ciò che sta avvenendo anche nella Chiesa riguardo alle donne.

Negli anni 2018/2020 si è visto accendersi a livello globale l’interesse verso la “questione femminile” nella Chiesa, con l’aggregarsi di gruppi, reti internazionali ed eventi significativi (come non ricordare l’evento di Voices of Faith fuori dalle mura vaticane l’8 marzo 2018?), non è stato facile dare visibilità al disagio delle donne cattoliche, ha richiesto un grosso impegno che ha coinvolto molto i social media, ma anche la stampa e la riflessione teologica. Questo innesco ha portato ad alcune azioni particolarmente significative come la campagna per il voto alle donne al sinodo e l’indagine internazionale sulle donne cattoliche.

Con il termine del Sinodo sull’Amazzonia e la pubblicazione dell’enciclica Querida Amazonia si è sperimentato che nonostante la pressante richiesta interna (da parte dei vescovi stessi), nulla veniva concesso alle donne. La prima fase del Sinodo sulla Sinodalità ha reso evidente che in tutti i paesi del mondo, a ogni latitudine, la questione dell’autorità delle donne nella chiesa emergeva come una richiesta pressante, così se n’è discusso apertamente nelle fasi successive, per arrivare al documento finale pubblicato nell’ottobre 2024, dove si dice semplicemente che i tempi non sono maturi.

Insomma… ormai se ne era parlato a sufficienza, era diventato un argomento quasi scontato e quando, dopo il Sinodo, il grande carrozzone giubilare ha inghiottito ogni spazio e attenzione, le richieste delle donne sono nuovamente sparite.

Siamo stufi di parlare delle donne, veniamo a cose serie: dove mettiamo il bambolotto di Luce alto 8 metri il mese prossimo?

Evito di soffermarmi sulle nomine vaticane perché è ormai chiaro a tutti che non è questo che le donne volevano, né che hanno mai chiesto.

La parabola delle donne cattoliche è quindi speculare a quella del MeToo, con la feroce differenza che a differenza del movimento contro la violenza sulle donne, questo non ha prodotto alcun risultato concreto, se non quello di aver reso un tema sensibile e spinoso prima un oggetto di attenzione e poi quasi una moda cavalcata da chiunque, con possibili strumentalizzazioni. È abbastanza frustrante per chi ci ha messo tante energie.

Come andare avanti da qui? Difficile dirlo: Women Ordination Conference propone uno sciopero globale, l’idea è buona ma non nuova, l’abbiamo visto avere grande impatto in Germania nel 2019, ma siamo in un tempo diverso e non sono certa che sia ciò di cui c’è bisogno in questo momento. Il movimento deve riprendere energia e legittimità, spingendo l’asticella un po’ più in alto ed evitando di lasciarsi normalizzare, stabilendo un confine netto tra ciò che le donne chiedono e non chiedono. La parabola del Me Too ci racconta che i movimenti di opinione oggi hanno vita breve e sono solo le acquisizioni in termini di leggi e norme a restare, quindi è a quelle che bisogna puntare, senza sconti. E so benissimo che è la parte più difficile.

Un’ulteriore nota di preoccupazione riguarda il fatto che il rischio di una ondata infranta si verifichi anche per il grave scandalo degli abusi del clero sui minori e sulle donne: anche qui negli scorsi anni c’è stata un’impennata di attenzione con il coinvolgimento di personaggi “eccellenti”, ma se non si starà attenti basterà un’assoluzione a cancellare anni di impegno.