Laura Tagliabue, redattrice di ESODO, interviene sulla vicenda dei cimiteri di feti.
Vedo la notizia e sinceramente a una prima lettura non capisco bene, come un cimitero di feti? Penso che ci sia un errore, penso che si tratti di bambini/e nati/e morti/e a compimento della gestazione oppure morti/e nei primi giorni di vita.
Mi costringo a leggere meglio, avevo capito male, si parla proprio di feti, approfondisco, anche se un po’ controvoglia; cerco di fuggire la questione, mi dico: lasciamo i morti dove stanno, rischia di diventare una curiosità morbosa, a che serve? Non ho risposte, eppure sento il bisogno di sapere di più: non solo feti, 28 settimane, no anche meno, dalle 20 alle 28, no anche meno di 20, embrioni, prodotti del concepimento, prodotti abortivi… Rileggo la 194, non trovo nulla, arrivo al D.P.R. 285/1990, ossia “Regolamento della polizia mortuaria” art. 7, dunque la norma consente il seppellimento perfino degli embrioni sotto le 20 settimane di gestazione, confesso che non lo sapevo e che resto addirittura un po’ stupita, tuttavia, penso che, se è questo il desiderio della madre, se può servire a lenire il suo dolore, forse è anche una norma giusta, un segno di civiltà. Ma allora perché tanto clamore? “Seppellimento senza il consenso della madre”, madri che “scoprono” una croce bianca con il proprio nome sopra, evidentemente messo a loro totale insaputa, di nuovo ho una sensazione di straniamento, come se vedessi un film di fantascienza, che non mi appassiona affatto, dove scorrono scene talmente incredibili da apparire ridicole; solo che in questa vicenda purtroppo non c’è niente da ridere, perché è vera.
Come è stato possibile? Com’è successo che in uno stato di diritto si verifichino impunemente violazioni tanto palesi, quasi pacchiane? Art . 7 c. 4 del DPR 285/1990: “i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall'espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale […]”, ecco la falla, forse, “chi per essi”, ossia nei fatti chi? Chiunque, se i genitori non si attivano nei termini? Probabilmente questo D.P.R., integrato, emendato, magari in qualche caso anche riveduto e corretto da regolamenti regionali e comunali, con l’ausilio prezioso di protocolli d’intesa siglati tra Aziende sanitarie locali e Associazioni antiabortiste, ha consentito l’aberrazione che i fatti di cronaca ci hanno restituito.
Dunque funziona più o meno così: una donna arriva in ospedale per abortire, non rileva qui né perché né a quale punto della gestazione sia arrivata, viene praticato l’intervento (perché di questo si tratta), magari in anestesia totale; quando la paziente si risveglia, o comunque entro le 24 ore successive, ha tempo e agio di chiedere degna sepoltura per il figlio/a, il feto, l’embrione, lo si chiami come si preferisce. Potrebbe tuttavia capitare che non pensi di farlo (né lei né il compagno, ove presente), perché non sa che è possibile, perché se ne dimentica, perché non ha abbastanza lucidità per pensare anche a questo, o più semplicemente perché non vuole, e allora cosa succede? Nessun problema, c’è chi pensa per lei, chi decide per lei, e con grande carità cristiana procede alla sepoltura, con rito cattolico, del suo feto, e infine per non trascurare nulla, regala anche una bella croce bianca, quella dei bambini, con inciso a caratteri indelebili, il nome…della madre?!
Questa ricostruzione non ha bisogno di commenti, perché si commenta da sola.
Forse qualche riflessione merita però la mentalità che sembrerebbe stare alla radice di fatti che non trovano giustificazione alcuna, né in termini di diritto, né di morale, né tanto meno di fede. In primo luogo, l’anomalia giuridica rappresentata dalla locuzione “chi per essi”, una norma sorprendentemente vaga, che quindi si presta già dalla sua formulazione a molte interferenze, anche indebite. Perché la volontà della donna, sovrana nel decidere dell’interruzione di gravidanza, può qui essere sostituita in modo così netto? Qual è la ratio? Se non chiede la sepoltura dell’embrione entro 24 ore, forse semplicemente è perché non la vuole, sarebbe la soluzione più ovvia, per quale motivo consentire che qualcuno (di non ben definito, questa è il tema vero) si esprima al posto suo? Forse si pensava che una donna che ha appena subito un aborto non sempre avesse le forze fisiche o psichiche per decidere anche sulla questione della sepoltura, ma se anche così fosse, perché non usare i consueti strumenti della delega a terzi e/o non individuare una rosa di persone autorizzate? Del resto la norma parla già di “parenti”, perché aggiungere “chi per essi”? Perché potremmo trovarci di fronte a una donna priva di parenti? Ci sono gli/le affini, gli/le amici/amiche, le persone di fiducia che si potrebbero delegare, come del resto si fa proprio quando si entra in ospedale e si indicano le persone che si vuole vengano informate del proprio stato di salute. Le soluzioni possono essere molteplici senza ricorrere ad alcuna alchimia giuridica, eppure no, in questo caso il legislatore non trova soluzione migliore che un generico “chi per essi”, ho di nuovo la sensazione di assistere a un brutto film di fantascienza.
Dunque è evidente che la norma così formulata non solo non tutela i diritti delle donne, ma fa qualcosa di peggio, quasi conduce, meglio ri-conduce, le donne a uno stato di minus habens, come se non fossero in grado di decidere da sole, come se ci fosse il bisogno di decidere per loro. E prontamente c’è chi decide per loro: associazioni asseritamente religiose, gruppi di uomini, ma io credo anche di numerose donne, che, mosse da spirito di misericordia, di empatia, di condivisione, mosse da quella pietas, che ha radici lontane, provvedono alla sepoltura del feto, in memoria di un/a bambino/a mai nato/a per estrema consolazione e, forse redenzione, della madre peccatrice.
Che tutto questo sia una forma di violenza tra le più gravi e feroci, frutto ed esito perverso del regime patriarcale nel quale ancora viviamo è di tutta evidenza e non necessita conferme o riflessioni aggiuntive.
Ma adesso vorrei rivolgermi alle donne, forse madri, che fanno parte delle associazioni promotrici di questi “anomali” funerali, arbitrariamente decisi e imposti. Mi rivolgo a loro, sorelle, che condividono il destino comune di donne.
Sorelle care, la perdita di un/una figlio/a, non importa quando, non importa come, non importa se per un aborto spontaneo o un’interruzione volontaria, è una sofferenza destinata a non finire mai, accompagna e scandisce il tempo e le giornate, sempre, abita l’anima; è pensiero sottile, amaro, che non abbandona, neanche quando la vita procede e sorride. Davanti a questo dolore l’unico atteggiamento possibile, l’unico veramente cristiano è il rispetto e il silenzio.
State tranquille sorelle, non sono indispensabili cimiteri o croci bianche – forse possono aiutare, ma sarà eventualmente la madre a chiederlo-, vi assicuro che comunque “nel cuore nessuna croce manca”[1], né mancherà mai. Se davvero sentite il desiderio di essere vicine alle madri che hanno perso un/una figlio/a non pregate per loro, pregate con loro; loro che sentono ogni giorno i/le loro figli/e presenti, loro che nella memoria perpetua di chi non è nato/a vivono l’unica reale promessa, perché un/una figlio/a si ama sempre, qui e Oltre, coltivando la speranza di un futuro eterno abbraccio. E così sia.
[1] G. Ungaretti, San Martino del Carso; naturalmente il Poeta scriveva in tutt’altro contesto, ma l’eco dei suoi versi mi ha raggiunta e mi pareva che ben si prestasse a rendere un sentimento che si spiega a fatica con le parole della prosa.