Un’immoralità lecita: resa lecita da chi?
Paola Cavallari, redattrice di Esodo, evidenzia come ogni tentativo di “regolamentazione” della prostituzione celi la reale natura di questa pratica: la negazione del- l’umanità dell’altro/a, l’abuso della persona fatta oggetto di potere. La prostituzione costituisce la peggiore forma di violenza, che va pertanto combattuta, non normata.
So di affrontare un argomento scabroso. Ma mi sento chiamata a farlo. Elisa Salerno, cattolica trevisana, negli anni cinquanta del secolo scorso, iniziò, parallelamente a Lina Merlin, una dura battaglia sacrosanta in nome del riscatto delle donne prostituite.
Attualmente i partiti al governo si collocano - pur su posizioni diverse - su orientamenti distanti, o addirittura “contro” lo spirito di quella battaglia. E all’opposizione non va meglio. Sta sempre più acquistando consenso il totem della regolamentazione del/la sex- worker . Di prostituzione si preferisce non parlare e, se se ne parla, il pudore interviene a
Simone de Beauvoir così scriveva sull’argomento, già molti anni or sono: «“Occorrono le fogne per garantire la salubrità del palazzo”, dicevano i padri della Chiesa. E Mandeville, in un’opera che faceva rumore: “È chiaro che vi è necessità di sacrificare una parte delle donne per salvare l’altra, e prevenire sconcezze di natura disgustosa”. Così l’esistenza di una casta di “donne perdute” permette di trattare le “donne oneste” con maggiori riguardi. La prostituita è un capro espiatorio; l’uomo si scarica su di lei della propria turpitudine, quindi la rinnega. La prostituta è considerata una paria, sia che uno statuto legale la ponga sotto la tutela della polizia, sia che ella lavori clandestinamente».
E perché S. de Beauvoir mette in campo i Padri della Chiesa? Cosa scrissero? Tra di essi il capostipite in materia è Agostino: «Tuttavia, eliminate le prostitute dalle cose del mondo e contaminerete tutto con la lussuria; ponetele fra le matrone oneste e disonorerete tutto con la vergogna e la turpitudine»3. Tra i teologi medievali il più famoso a riguardo è Tommaso: «... La prostituzione nel mondo [è] come la melma o la cloaca in un palazzo. Togliete la cloaca e riempire- te il palazzo di inquinamenti. Togliete le prostitute dal mondo e lo riempirete di sodomia... perciò Agostino dice che la città terrena ha fatto dell’uso di prostitute un’immoralità lecita»4. Un’immoralità lecita: resa lecita da chi?
È strano come ci siamo assuefatti a questa polarità così netta tra le due categorie di donne. Secondo la logica dei due teologi, esse avrebbero tra loro un legame di interdipendenza: le une sussisterebbero a salvaguardia delle altre, come le fogne servono al mantenimento dell’igiene. Non esiste affatto un corrispettivo maschile. Esistono uomini onesti e uomini disonesti (con mille sfumature intermedie, naturalmente) ma le due categorie non si implicano: i disonesti non servono a far sì che gli onesti vengano preservati nella loro virtù, anzi semmai potrebbero contaminali per mimesi.
In questa asimmetria si annida un punto cruciale. La prostituzione sarebbe quella zona franca - sul bordo tra ciò che è legittimo e ciò che è vietato, in cui si soddisfa quel bisogno maschile, sessuale ed emotivo insieme, di una padronanza indiscussa (si parla di erotizzazione del dominio) sull’altra/o; la disumanizzazione del/la partner, la sua umiliazione ne è costitutiva. Come nel quadro dipinto da Dorian Gray, sulle donne perdute si scarica la propria turpitudine - per usare il lessico di De Beauvoir - rinnegata nel mondo delle relazioni con le donne oneste. Ecco la torsione paradossale di un’immoralità cui è riconosciuta come lecita la sua ombra, da parte di chi poteva - e può - padroneggiare incontrastato l’economia dei beni simbolici, per usare la terminologia di Pierre Bourdieu nel suo Il dominio maschile.
Nella Chiesa cattolica le dottrine a riguardo dei piaceri postribolari seguirono l’assunto dei due maestri citati. Ma ora, il Catechismo (C.C.C.) ha rimosso ancor di più; al n. 2355 recita: «La prostituzione offende la dignità della persona che si prostituisce, ridotta al piacere venereo che procura. Colui che paga pecca gravemente contro se stesso: viola la castità, alla quale lo impegna il Battesimo e macchia il suo corpo, tempio dello Spirito Santo». Nulla da eccepire sul fatto che “chi paga” (“cliente”? È alquanto significativo che nella lingua italiana non esista un lemma specifico), ovvero il compratore del corpo altrui - tempio dello Spirito anche questo - degradi se stesso e offenda il proprio. Ma è intollerabile come si sia incentrato tutto solo sul “chi paga”, senza una parola per “colei che è pagata”, che non esiste; ma serve - lo riconosceva Agostino - come capro espiatorio, come si è detto: una figura che Gesù di Nazaret aveva redento.
Così come, nel nostro ordinamento giuridico, la violenza carnale era, fino al 1996, un reato pubblico contro la morale e non contro la persona, il compratore del corpo altrui peccherebbe, secondo la dottrina, contro la castità e non contro la donna che disumanizza, e di cui usa e abusa e sfrutta e violenta e umilia l‘anima e il corpo.
Quella esposta è la principale linea interpretativa, su cui si assestava sia la dottrina religiosa sia la morale, egemone fino a non molto tempo fa. Poi, dal firmamento del neoliberismo, è spuntata la figura del/della sex-worker, apparsa alla fine degli anni settanta. Da allora, con l’apparire della parola stessa, circonfusa dall’aura magnetica della trasgressione, la falsificazione si è raffinata. Come tutti i neologismi coniati per confondere ed edulcorare, il termine nasconde molto più che mostrare. Con il suo esordio, il mondo della prostituzione reclama, anzi rivendica, la propria legittimità sotto la luce del sole. Ma non è l’ultimo passaggio di questa dialettica storica. Altre voci alternative emergono dal silenzio, e la coscienza che smaschera la pantomima patriarcale si fa strada, anche tra gli uomini.
«Nella stragrande maggioranza, a essere clienti della prostituzione siamo noi uomini». È l’incipit di una lettera pubblicata sul Journal du Dimanche nel gennaio di quest’anno. Eccone altri frammenti: «Forse i nostri impulsi apparentemente irrefrenabili o la nostra semplice natura umana ci possono auto- rizzare a fare di una persona - il più delle volte una donna - un oggetto di compravendita, senza tenere in alcuna considerazione lei e il suo desiderio?... è un arcaico privilegio quello che ci permette di costringere una donna a compiere un atto sessuale per denaro... L’acquisto, da parte di noi uomini, di un corpo, per lo più quello di donne in situazione di precarietà o di vulnerabilità, spesso vittime di sfruttatori o trafficanti, fa di noi dei predatori sessuali...». L’avvento delle crepe che percorrono il massiccio monolite culturale della mercificazione del sesso sta annunciandosi: il convincimento che il mestiere più antico del mondo sia un dato inscalfibile si sta incrinando.
Di più. In alcuni stati, tra cui la stessa Francia, si approvano leggi dove il principio-guida è la penalizzazione del cliente. E le valutazioni sociologiche constatano una diminuzione del fenomeno, mentre è in aumento nei paesi dove sono state adottate legislazioni atte a “regolamentare”.
Con perentorietà, da molte parti - sia alcune correnti del femminismo, che gruppi di autocoscienza maschili - si mette radicalmente in discussione il pensiero liberal-progressista che “normalizza” la crudeltà dell’abuso sessuale, mascherato da rapporto regolato da consenso. Per esso, il commercio (venale) delle prestazioni sessuali non sarebbe un’attività umana abietta, spregevole, offensiva. Lavorare nella prostituzione sarebbe un’occupazione come un’altra, una svolta nei costumi da salutare come emancipazione dal moralismo oscurantista - religioso o meno - nell’orizzonte della liberazione dai pregiudizi sessuofobi che hanno mortificato il godimento.
Nella agguerrita retorica di questo mondo si fa uso anche della categoria dei diritti umani. Tutti avrebbero il diritto di accedere all’orgasmo (un tutti declinato al maschile - si badi bene - come hanno fatto notare disabili donne), per cui vietare la possibilità del commercio del sesso sarebbe un ingiustificato opporsi alla dignità umana. (Fra l’altro, da quando i diritti umani hanno a che fare con scambi in denaro?)
Tra i sex-worker non rientrano solo le prostituite, ma anche tutto il mondo che ruota attorno a loro: tenutari/e di bordelli, di centri massaggi, locali streap-tease, agenzie escort, protettori, produttori di video porno, etc, che si rivestono così dell’aura di lavoratori di tutto rispetto. Lo sono diventati nei paesi dove la prostituzione è stata regolamentata: dove all’ufficio di colloca- mento una disoccupata può essere convocata per un posto resosi libero (è avvenuto in Germania). La nuova semantica pornografica che ruota attorno alla/al sex-worker consente di mascherare una realtà per nulla glamour e patinata come viene raffigurata, ingenerando un’ingannevole confusione tra sfruttate (e il fatto che accettino non le rende meno sfruttate) e sfruttatori: la mistificazione svantaggia le prime, come sempre. «Nel tentativo di restituire dignità alle persone prostituite, si dà dignità alla prostituzione, chiamandola lavoro e cancellando la violenza»6: Rachel Moran compendia lucidamente con questa sintetica espressione il cuore della mistificazione.
Aggiungo che la sponsorizzazione di questa linea vede, tra le sue fila, associazioni economicamente molto potenti, come documenta il libro Pretty woman7. Nel femminismo non c’è una posizione concorde. I toni sono spesso aspri. E le protagoniste? Divise anch’esse, ma i pronunciamenti di quella parte di donne irretite nella tratta/prostituzione che esprimono favore per la regolamentazione sono sospetti ai miei occhi.
“Tanto più dura è l’oppressione, tanto più si vuole collaborare col potere”, scrive Primo Levi, nei Sommersi e salvati. Di tale “denegazione”, le donne uscite dalla prostituzione - o sopravvissute, come si autodefiniscono - danno conto in modo convincente.
«Qualche giorno dopo si ritrovò seminuda in strada ad adescare clienti. Quel lavoro le dava il vomito, la distruggeva emotivamente, ma tutto acca- deva in modo così rapido che non aveva nemmeno il tempo di capire quanto fosse tremendo ciò che le stava capitando. Sentiva solo un profondo, violento, continuo disgusto per quello che la circondava. E anche per se stessa. A volte si illudeva che le bastasse non pensarci, tornare a casa e allattare Benedict. Ma il trucco funzionava solo per i pochi minuti di intimità tra lei e il bambino. Poi il disgusto tornava a sopraffarla. I mesi passavano veloci, e presto Carla imparò a vivere anche lei come un automa, come le ragazze che aveva osservato nella casa di Alicante. Lei non poteva saperlo, ma il suo sguardo era diventato identico al loro, distante, disinteressato, perennemente venato di disgusto... Si era scissa: la sua mente e il suo cuore vivevano costantemente nel passato e nel futuro, tra i ricordi e le speranze».
È un frammento di testimonianza della storia di una donna vittima della tratta, trascritta da Pietro Bartolo. Mi preme mettere in luce un aspetto che emerge nella narrazione, quello della scissione, una drammatica spaccatura interiore, unica via di fuga - mentale - per resistere alle vessazioni. Nelle parole delle esperienze delle prostituite, il rifiuto del reale chiederà, con il passare del tempo, l’additivo ulteriore di sostanze tossiche, consegnandosi, sempre più inermi, a grandi passi verso l’abisso.
Fino a un anno fa circa ero completamente ignara dell’inferno costituito dall’universo del commercio del sesso. Come tante/i avevo introiettato il convincimento che quella realtà non mi riguardava. Il mio e il loro erano due mondi in parallelo che non si incontravano mai. Gli uomini che andavano a “donne” mi disgustavano e basta. Ma un incontro è avvenuto, e il velo si è sollevato. Mi ha aperto gli occhi un libro.
Platone dice che la Verità risplende nella sua evidenza. Nel racconto che Rachel Moran fa della sua vita nella prostituzione - da quando aveva 15 anni fino ai 22 - la verità atroce di quel mondo risplende nella sua crudeltà, irriducibile a ogni costruzione ideologica che la smentisca. È un racconto il suo che, retrospettivamente, attraversa gli anni dell’infanzia - un’infanzia difficile - e si snoda in quei sette anni disperati, in un esercizio di memoria doloroso e insieme purificatore. Rompere con quel mondo sembrava impossibile, perché era un congedarsi contemporaneamente dalle sostanze da cui era divenuta dipendente, a cui era ricorsa per sopportare quell’abiezione.
Per troncare con quel mondo occorreva riattraversare quei paesaggi, riviverli, ma in una luce più straziante di allora, perché il muro che la scissione aveva innalzato ora dissolveva: «“Perché non sono stata rispettata?”. Questa ovvietà va dritta al cuore della prostituzione: quando ti rendi disponibile a subire un abuso risulta allora più difficile riconoscere il tuo molestatore per quello che è, e l’abuso che stai subendo come abuso in quanto tale».
Per troncare con quel mondo occorreva riannodare le ragioni antiche, altrettanto strazianti, per cui ella era entrata in quell’ambiente: la miseria di un’infanzia e adolescenza che aveva sopra di sè un soffocante cielo cupo.
La testimonianza di Rachel Moran contiene la stoffa di chi ha saputo con grande coraggio sprofondare nel proprio abisso e ne è riemersa: e la pietra d’inciampo è di nuovo divenuta testata d’angolo.
Paola Cavallari
pubblicato in ESODO 3/2019, Diritti e libertà nella solidarietà.