di Sandro Bergantin

Guglielmo Minervini ricordava in un opuscolo delle edizioni La Meridiana del 1995, che don Tonino era solito attingere immagini e metafore per semplificare e impreziosire anche le strutture concettuali più complesse a quel giacimento di sapienza ebraica che sono I racconti dei Chassidim di Martin Buber: la parola del profeta è libera come lo spirito. Ho più volte pensato in questi anni che ci separano dalla morte di don Tonino (20 aprile 1993), che cosa avrebbe detto oggi nei confronti degli avvenimenti tragici che minacciano la pace, di fronte alla mancanza di empatia e alla corsa verso una anestesia generale mentre è in atto un genocidio di intollerabile violenza. Certo, molte cose sono cambiate. Ma se ricordiamo le sue parole e le ascoltiamo leggendo i giornali o vedendo le tv, balza subito una straordinaria attualità.

Don Tonino ha accettato il messaggio cristiano con radicalità senza compromessi. “Dobbiamo riconoscere, purtroppo, che tra noi (chiesa) nonostante il multiloquio, quella della pace rimane ancora una cultura debole” (1987). E il suo chiodo fisso era di far comprendere che i discorsi sulla pace – scriveva Diego Cipriani nel 2013 – “non erano un’appendice rispetto alla fede in Cristo, anzi che la pace è una questione di teologia dogmatica piuttosto che di teologia morale”, come disse all’Arena di Verona il 30 aprile 1989, “sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nel sud del mondo e distruzione dell’ambiente naturale”. E ancora, “la morale del doppio binario”, da lui definita “la vera tragedia per noi credenti”. Scriveva don Tonino nel 1991: “C’è, in buona sostanza, una morale che è valida a regolare la sfera privata: e in questa sfera il disarmo unilaterale del perdono è raccomandato, la logica dell’”occhio per occhio e dente per dente” viene rifiutata come antievangelica e il modulo della ritorsione violenta viene giustamente visto come contrario al discorso della montagna. E c’è poi una morale che regola la sfera dei rapporti collettivi. In questa sfera per i discorsi di Gesù Cristo sul perdono, sulla remissione dei debiti, sull’amore dei nemici… c’è il divieto assoluto di accesso. Anzi, bisogna fare in modo di creare attorno a questa sfera pubblica una cintura di sicurezza, costituita dal buon senso, perché non ci siano infiltrazioni pericolose”.  Non è forse questo anche oggi uno dei pensieri dominanti?  
E così don Tonino affermava che la pace non è neutra.  “La pace la vogliono tutti, ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo?”. E ancora: “Non scommettere sulla pace che prende le distanze dalla giustizia: è peggio della guerra… non scommettere sulla pace che sorrida sulla radicalità della nonviolenza: è infida… non scommettere sulla pace che non provochi sofferenza: è sterile”.
Don Tonino ha incoraggiato la nonviolenza. Il diritto all’ingerenza umanitaria è assolutamente legittimo e si può praticare in diverse modalità e proponeva: “perché non pensare a una mobilità di 500 mila obiettori di coscienza rappresentativi di tutta Europa per formare una specie di cuscinetto umano capace di interporsi?  E questo avvenne nel 1992 con i pacifisti a Sarajevo.
Il suo impegno per gli immigrati, l’antirazzismo, l’accoglienza delle diversità erano fatti visibili. Profonda e poetica è la Lettera al fratello marocchino. Sferzante è stata la sua denuncia durante la vicenda dell’esodo degli Albanesi: in 25.000 ammassati in poche centinaia di metri quadri, per giorni in condizioni subumane dalle autorità governative. “Quando sono stato nominato vescovo – scriveva don Tonino – mi hanno messo l’anello al dito, mi hanno dato il pastorale tra le mani, la Bibbia: sono i simboli del vescovo. Sarebbe bello che nel cerimoniale nuovo si donassero al vescovo una brocca, un catino e un asciugatoio. Per lavare i piedi al mondo senza chiedere come contropartita che creda in Dio. Tu, Chiesa, lava i piedi al mondo e poi lascia fare: lo Spirito di Dio condurrà i viandanti dove vuole lui”. Era la “Chiesa del grembiule”.
Al riguardo, mi ha sempre colpito una riflessione di Ettore Masina riportata nel già citato quaderno delle edizioni La Meridiana. Ed è la seguente: “Non sono mai riuscito a comprendere bene come sia avvenuto che la lavanda dei piedi sia stata accantonata nella liturgia eucaristica, trasformata in un rito di un solo giorno all’anno. L’evangelista Giovanni, che pure è tanto esaltato dai papi, la pone al centro dell’Ultima Cena, addirittura tace della consacrazione, quasi per fare spazio al “grembiule” di Gesù. L’umiltà, la concretezza, la materialità del servizio del Cristo ai suoi discepoli, sembrano relegati alla marginalità dei paradossi. Don Tonino sapeva bene che non era così: quel chinarsi silenziosamente sui piedi stanchi di povera gente che quel giorno aveva già camminato a lungo e che nella notte avrebbe dovuto percorrere altre strade – e tormentose –, quel restituire forza con l’acqua e con la tenerezza sono la condizione necessaria, preliminare, per annunciare che il regno di Dio è già fra noi. Stabiliscono una “relazione” vitale fra l’amore di Dio e la sfinitezza di chi lo cerca”.
Lo andai a incontrare per l’ultima volta qualche settimana prima del giorno della sua morte. A Molfetta, nel vescovado, don Tonino era nel suo letto. Lo salutai e lo abbracciai. I suoi occhi brillavano, nonostante il dolore per il tumore che lo stava consumando. I miei erano colmi di lacrime.
Lo avevo conosciuto a Roma nel dicembre del 1989, in occasione del Congresso nazionale di Pax Christi. Per richiamare la dimensione politica della pace che traduce la coscienza in progetto, tenne una relazione improntata sull’icona biblica del Buon Samaritano. “È su quest’asse che si giocano i sogni diuturni delle nostre utopie. È l’asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del Tempio; è il luogo dove si celebra l’ultima Cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua Resurrezione…) e conduce verso Gerico (verso l’ecumene, la storia, anzi la cronaca; cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti i briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo simbolo di tutti gli oppressi della terra)”.
Fu mons. Bettazzi, che lo aveva conosciuto a Bologna, dove aveva completato i suoi studi di teologia, poi a Tricase, dov’era parroco stimato e amato, a proporlo, dopo che era stato nominato vescovo a Molfetta, suo successore alla presidenza di Pax Christi.
Seguirono anni di grande impegno anche se a volte segnati da amare sconfitte e da pesanti incomprensioni fin dentro alla chiesa. Don Tonino girava in lungo e in largo la penisola, teneva incontri, partecipava alle marce della pace, incontrava giovani obiettori di coscienza e catechisti, chiamato da vescovi e da comunità, diventando così per l’Italia intera una bandiera ideale.
Per me furono comunque anni inaspettati, arrivati come un dono che poi riesci sempre più ad apprezzare. Ricorda mons. Bettazzi nell’omelia per il funerale tenutosi sul molo di Molfetta, davanti a decine di migliaia di persone che “il Signore aveva voluto che la Marcia nazionale di quell’ultimo Capodanno, dopo alcuni contrattempi che l’avevano distolta da città più grandi, finisse proprio nella sua Molfetta. Le migliaia di giovani che avevano sfidato la pioggia battente, avevano così potuto esprimere a lui la gratitudine e l’entusiasmo, la consapevolezza e l’impegno sollecitati dalla sua profezia…”.
A chiusura di questa parziale memoria che diventa “memoriale”, cioè attualizzazione di un evento e una testimonianza sul passato e sul futuro di don Tonino Bello, scrivo qui queste parole di Guglielmo Minervini che fu amico, consigliere e fedele collaboratore di don Tonino a Molfetta: “Quando all’epilogo del suo cammino il profeta ha additato la primavera che incalza oltre le nubi, ho avuto, vi confesso, la sensazione che nello svuotamento del suo ormai minuscolo corpo fosse riuscito a liberarsi fino ad afferrare il cielo senza staccarsi da terra. Ce li ha voluti avvicinare. I piedi per terra e la testa tra le nuvole. Le scarpe sporche e gli occhi rivolti verso l’alto, ben fissi verso l’orizzonte. Don Tonino (ecco infine) il nome del profeta, non è morto. Custodisce gelosamente lo stupore nel vederlo saltellare ancor oggi, imprevedibilmente, da una stanza all’altra della nostra storia. E attendetelo. Prima o poi irromperà anche nella vostra coscienza”.