Nelle pagine di Cristina Campo selezionate e commentate con maestria da Caterina Zamboni Russia si coglie un triplice movimento. Il primo è un movimento di ritorno alle origini, alla natura – umana, minerale, vegetale o animale che sia. Il secondo traspone in chiare, piane parole la bellezza e la forza che essa serba e schiude, perché fuori dalla parola esatta quella bellezza e forza si perdono, almeno per noi. Un terzo movimento, infine, rompe il cerchio nel quale vorremmo che i primi ci chiudessero, incantati. Qualcosa, infatti, in quella natura e in quelle parole tanto profondamente amate apre ad altro, a un’origine e a un ordine diverso, cui non possono che far cenno lasciandoci inquieti e spaesati, finché l’abisso non risponda all’abisso, per grazia, e tutto sia ridente e salvo. 

Paolo Bettiolo

La prima terra. Una lettura di Cristina Campo 
Caterina Zamboni Russia 

Cristina Campo, una pensatrice del secolo scorso che ricordiamo principalmente come poetessa e scrittrice, ha rappresentato una figura intellettuale scomoda per la vita culturale del Novecento. È stata una mistica dal fortissimo rigore intellettuale, ha avuto una religiosità spesso sofferta e conosciuta tardi nel corso della sua vicenda biografica. Era malata in un corpo inospitale. La sua indole solitaria la portava a condurre una vita ritirata. La sua scrittura in prosa ha sempre rappresentato l’espressione più che virtuosa di un profondo spirito poetico, in cui la ricerca della perfezione letteraria, i ricordi dell’infanzia in campagna e una fascinazione per il non-visto e l’inesprimibile intessevano la densità delle sue parole. In una delle pagine più complete e interessanti del testo Una rosa nella raccolta Gli imperdonabili troviamo un passo capace di riunire tanti tra i punti che Cristina Campo ha trattato nel corso della sua riflessione sulla natura. 

Non a caso la fiaba […] si chiude per lo più come un anello allo stesso punto nel quale era cominciata. Il termine raggiunto, al di là dei sette monti e dei sette mari, è la casa paterna; il parco familiare o il giardino dove nel frattempo sono cresciute alte erbe. Là il re canuto attende di poter cedere la corona a suo figlio, il principe prodigo. Vi è una fiaba, e neppure una fiaba antica, nella quale il viaggio è oltremondano: una bambina parte alla ricerca della madre morta. Al di là di foreste e di oceani, di città labirintiche e di monti fragorosi, attraversata da un capo all’altro la cadaverica pianura della luna, viene indicato alla bambina il giardino del paradiso. È il primo luogo amabile che ella incontri. Ma di lì a poco le altissime querce, le purpuree foglie turbinose, le appaiono familiari: è la foresta vicino alla sua casa, là dove aveva scelto di perdersi all’inizio del pellegrinaggio. Ed è senza meraviglia che poco dopo vede sua madre: seduta in un piccolo speco, una grotta, vicino alla sorgente cara ai suoi primi giochi1.

Se agli occhi di Cristina Campo la fiaba appariva come un genere privilegiato poiché capace di una più profonda comprensione del reale, in questo caso essa diventa terreno fondativo di un viaggio eterno verso le proprie radici. Il giardino della casa paterna, la foresta dell’infanzia, il parco familiare sono immagini che rappresentano vividamente il viaggio di ritorno a quel mondo naturale che intimamente ci costituisce, poiché con esso abbiamo un rapporto di coappartenenza e di familiarità. Non è un caso che, qualche pagina più avanti, il testo prosegua con un’affermazione significativa:

Tutta la conoscenza acquisita [….] sembra rivolgersi […] verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza2.

Incontriamo allora nel viaggio di ritorno e di andata verso la prima terra – così la chiamava Cristina Campo – l’immagine del giardino, del parco familiare. Grazie alla fiaba e al pensiero dell’infanzia, la rappresentazione dell’estensione naturale si fa luogo di vita quotidiana e al contempo immaginifica, uno spazio favorevole alla riflessione e alla lettura, che la giovane Cristina Campo spesso frequentava a causa della sua salute cagionevole. Leggiamo ancora:

Acqua fluiva, mentre io leggevo sotto le finestre della nostra cucina, in luogo dell’aiuola di zinnie, della siepe di spiree […] E in quei mattini d’estate abbacinati di sole liquido, trapunti dal clic delle cesoie di Riccardo tra i bossi, dal fresco zampettio dei cani sulla ghiaia, dal tubare dorato delle tortorelle sul cedro, una voce che mi chiamasse da una porta-finestra aperta improvvisamente mi faceva trasalire3.

Era in particolare nella possibilità di trascorrere l’infanzia in campagna che Cristina Campo vedeva una via privilegiata di accesso al mondo, l’occasione di una capacità ulteriore che l’uomo può acquisire, un differente modo di percepire.

Chi abbia avuto la ventura di nascere in campagna (o almeno in un giardino abbastanza vasto da non saperne troppo bene i confini) porterà per tutta la vita il sentimento di un arcano e pure preciso linguaggio, di uno svolgersi musicale di frasi che, mentre colma i sensi di sovrabbondante letizia, annuncia alla mente un ultimo disegno, sempre di nuovo promesso e differito. Come la soluzione di un rebus, ora quest’ultima forma era proposta da un sogno (nel quale il paesaggio amato assumeva profondità inaudite) ora da una lettura che bene spesso era quella di una fiaba (e più che mai, là dentro, i dolci luoghi proseguivano per sentieri impensabili, si caricavano di presenze, subivano più sottili, più eccelse metamorfosi).
Rebus di limiti illimitati, l’infanzia. Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le parole magiche, compitate a rilento nel libro delle fiabe). Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre il quale doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda. Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l’acqua nascosta. Era la fin du parc4.

Ancora una volta, la fiaba nella riflessione di Cristina Campo si intreccia con la percezione del mondo naturale, ponendosi come ritorno circolare al giardino dell’infanzia, in una continuità profonda tra casa, giardino e paesaggio circostante. Lo spazio naturale, delineato in una cornice temporale che spesso si riferisce alla fanciullezza, acquisisce allora un significato fortemente simbolico. Così non solo la parola, ma anche “la foglia, l’animale, la pietra vogliono dire qualcosa d’altro”5, acquisendo in questo senso un carattere allegorico oltre che evocativo. È proprio questo carattere evocativo della natura che il poeta di Les sources de la Vivonne incontra:

Piccoli siti in rovina, scavati da tutti i venti, mangiati da millenni di piogge. Profili di rupi, soglie di selve da cui si sciolsero in lampi, pleniluni, vortici di vapori, le apparizioni che diedero al vecchio mondo i suoi terrori e i suoi canti. Bozzoli di perenne sapienza, minime icone di immense cerimonie, qual era il loro compito? Vita di certo ne sgorgava a fiotti se pellegrini e crociati dal cuore in fiamme ne diedero notizia da un capo all’altro del mondo, se monaci ne scrissero per secoli su bianche pelli di animali, in grandi lettere d’oro. Il poeta vi concentrava lo sguardo come lo si concentrava sulla figurina di cera rossa trafitta dallo spillone: per investirla delle supplici energie dell’amore, per trarne ciò che sta fra ciò che non si può dire e ciò che l’uomo, di nuovo, proverà a dire6.

Quella di Cristina Campo è una natura che si configura in percezioni letterarie, capace di ospitare gli echi di un grande passato, gli eventi storici, i protagonisti della grande letteratura e insieme una miriade di insetti, uccelli, arbusti e piante mediterranee. In una lettera alla poetessa Alejandra Pizarnik, Cristina Campo scriveva:

Mia carissima Alejandra, contavo di scriverle appena arrivata in campagna, ma sono caduta in una specie di sonno perpetuo, durante il quale continuo ad esaurirmi […] Mi sveglio spossata, pensando soltanto a riaddormentarmi, spaventata, d’altronde, da questa letargia convulsiva della quale il mio corpo mi rimprovera tutto l’anno per i maltrattamenti subiti […] È, tuttavia, bello qui. È la campagna di altri tempi, bruciata dall’estate così come dev’essere, disseminata di papaveri, cardi e ginestre. Conosco i sentieri a memoria come una poesia. La vista più bella si apre intorno al lago di Bracciano, sull’antico castello degli Odescalchi Orsini, tra campi perfetti e castagneti. Anche la casa le piacerebbe. Molto luminosa, piena di farfalle e di scorpioni, circondata dalla voce leggera dei pettirossi e da quella arcaica delle cicale. Se le circostanze fossero diverse, questa lettera mi porterebbe ad una sola parola: Venga!7

E sono le ville della campagna fiorentina a divenire l’immagine stessa di questa commistione tra natura e letteratura, tra il processo naturale e il vivere degli uomini, in una:

Campagna che era un proseguire dei parchi, [in] parchi che erano un proseguire della grande casa, in quelle ‘musicali proporzioni’ che sono il contrario dell’irreale, e perciò più vicine alla fiaba […] Ville del Decamerone, delle Stanze del Poliziano, dell’Ambra di Lorenzo il Magnifico: corse da un fiume, vigilate da una sorgente, da un gruppo di cipressi, colme di geni locali.

E ancora, in un’altra lettera, Cristina Campo raccontava:

Sa che le sto scrivendo su una panchina di un parco pubblico? Il sole, in questo momento, sta per lasciare questo foglio. Vorrei conoscere i nomi degli alberi in francese: l’acero bianco, il susino rosso scuro nel quale il sole sprofonda come le ceneri nel fuoco. C’è il grande cedro del Libano (il mio albero), c’è la bianca pioggia e i tigli che coprono oramai tutto il sentiero. Questa parte del parco della Villa Borghese si chiama Il giardino del lago. Tutto è molto ordinato, e con una negligenza così superba (i piccoli ponti, le cascate, le piante rare e delicate) che ci si aspetta di veder apparire nell’ombra il Figlio del Cielo con la sua tunica di seta blu. Vengo spesso qui, a leggere e a scrivere8

Era un costante movimento di ritorno a guidare Cristina Campo verso il mondo naturale. Un ritorno fanciullesco al parco familiare, al giardino da sempre conosciuto e in cui il trascorrere del tempo si percepisce grazie al cambiamento delle stagioni. Ed è in quel giardino che forse possiamo ritrovare l’immagine stessa della natura secondo Cristina Campo, avendo in mente la fiaba della bambina di Una rosa: un ritorno al paradiso perduto della nostra infanzia, ricordando che paradiso nell’antichità significava anche giardino.

[…] Non sono nata a Roma. Il giardino di In medio coeli è quello della mia casa natia, a San Michele-in-Bosco, nelle colline vicine a Bologna. Si trova là il paradiso […]9.

 



Note

1) C. Campo, Una rosa, in Id., Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, p. 17.
2) Ivi, p. 19.
3) C. Campo, La noce d’oro, 1998, p. 226.
4) C. Campo, Una rosa, in Id., Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, pp. 19-20.
5) AA.VV., Per Cristina Campo, Atti delle giornate di studio sulla scrittrice tenutesi a Firenze il 7-8 gennaio 1997, a cura di M. Farnetti e G. Fozzer, All’insegna del pesce d’oro, 1998, p. 24.
6) C. Campo, Les sources de la Vivonne, in Id., Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, p. 49.
7) C. Campo, Vieni, parliamo, chi parla non morto. Lettere di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik, La Biblioteca di RebStein, Vol. LXXXI, p. 15.
8) Ivi, p. 9.
9) Ibidem.