di Paolo Bertezzolo   

L’aspirazione alla pace è nata in Turoldo [Coderno di Sedegliano, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992] già negli anni della seconda guerra mondiale che trascorse, dal 1941, nella città di Milano. Alle distruzioni e agli orrori cui aveva assistito si aggiunse la sconvolgente esperienza dei campi di concentramento tedeschi che visitò, per incarico vaticano e della curia milanese, immediatamente dopo la fine del conflitto. Scoprì, si può dire in diretta, la condizione dei deportati e i forni crematori. Molti anni dopo, ricordando quella sua visita, confessava di sentire ancora nella gola, quando parlava, il terribile “sapore di cenere di morti” percepito allora.
A tali ricordi nei primi anni del dopoguerra si accompagnarono in lui le speranze suscitate dalla sconfitta del nazifascismo che tuttavia abbastanza presto cedettero il passo alla delusione.

L’umanità non aveva appreso la lezione della storia. Si era piombati nella guerra fredda, con la divisione in due blocchi dell’Europa e il pericolo di un nuovo conflitto. Già nel febbraio del ‘46 sulla rivista “L’Uomo”, che era stata dal ’43 un importante organo delle Resistenza, pubblicò una poesia dai toni pessimistici dedicata alla pace in cui spicca l’affermazione: E forse la pace avremo / quando tutto sarà perduto / quando inutili saranno / le nostre parole. Pessimismo e speranza sulla possibilità di raggiungere una pace stabile nel mondo si alternarono in lui fino al termine della sua vita.

Il suo impegno pubblico per la pace iniziò a Firenze, dove fu assegnato il 24 febbraio 1954, quando poté rientrare in Italia dall’esilio cui era stato condannato dal Sant’Uffizio per il modo libero che aveva di stare nella Chiesa e per le idee fortemente innovative che propugnava, manifestati in particolare nel sostegno all’esperienza di Nomadelfia fondata nel dopoguerra da don Zeno Saltini. La diocesi di Firenze era retta dal cardinale Elia Dalla Costa, figura dalla spiritualità ascetica ed esemplare, riconosciuto nel 2012 “Giusto tra le nazioni” dallo stato di Israele per l’opera svolta a favore degli ebrei durante la guerra. Nella città operavano don Lorenzo Milani ed Ernesto Balducci con cui Turoldo entrò in profonda amicizia. Vi ritrovò anche l’amico e fratello servita Giovanni Vannucci, con cui aveva condiviso gli impegni degli anni milanesi.
Guidava l’amministrazione cittadina il sindaco Giorgio La Pira, che aveva fatto di Firenze una città fortemente impegnata sul piano sociale e aperta alle istanze di dialogo politico e di pace a livello internazionale. Anche Turoldo vi fu coinvolto. Uno dei suoi primi impegni fu la stesura nel 1955, assieme a Mario Gozzini e Carlo Betocchi, dell’appello per il quarto Convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana, promosso come gli altri appunto da La Pira. Era intitolato Speranza teologale e speranze umane. In esso, anticipando Jean Daniélou, si prefigurava “una speranza integrale, umana e divina insieme”, che sintetizzasse in un “unico ordine di Vita” le energie per la trasformazione della terra e la prospettiva della vittoria sulla morte.
Turoldo elaborò un contributo anche per il convegno successivo che tuttavia non ebbe luogo. In esso affrontò, sempre nell’ottica della pace, il tema del rapporto tra unità di fede e pluralità di culture. Partendo dall’idea che l’umanità è composta da “sillabe della divina voce”, sostenne che ogni religione è “sacra” in quanto «figura e adombramento dell’unica e vera e universale religione che è la vita di Cristo nella sua Chiesa».
L’impegno per la pace, da questi anni, diventò uno dei più importanti della sua vita.
Nel ’55 pubblicò Preghiere tra una guerra e l’altra che nel titolo rivela il suo pensiero: il mondo non si trovava affatto in uno stato di pace ma solo nell’intervallo tra la seconda guerra mondiale e una incombente nuova guerra. Si spiega così la drammaticità di molte poesie di questo periodo, impregnate di pessimismo.
Quando, nel 1963, Giuseppe Gozzini rifiutò di indossare la divisa militare, nel mondo cattolico e non si svilupparono vaste polemiche. Turoldo fu tra i primi a prendere posizione a suo favore, pubblicando il 13 gennaio su "L’Avvenire d’Italia", diretto da Raniero La Valle, un intervento in cui difendeva l’obiezione di coscienza anche dei cristiani. Lo fecero, tra gli altri, pure Ernesto Balducci che fu denunciato e condannato per apologia di reato e, nel ’65, don Lorenzo Milani, anch’egli denunciato e sottoposto a processo.
La convinzione maturata da Turoldo, anche se allora non lo dichiarò in modo esplicito, è che la tradizionale dottrina della “guerra giusta” sostenuta dalla Chiesa Cattolica andasse superata.
Affermò infatti che la guerra era ormai sempre inaccettabile perché avrebbe portato alla distruzione totale di uomini e valori. A questa convinzione Turoldo ne aggiunge un’altra, che implica una forte critica contro le “mediazioni” politiche e istituzionali delle istanze di pace. Nessun sistema, infatti, e nessuna ideologia sono in grado di costruire una pace duratura. È l’uomo che deve costruire la pace e, in particolare, il cristiano. Chiamato a stare col debole e l’oppresso, non può non delegittimare ogni ordine ingiusto. Dunque non può fare il militare in un esercito che difenda tale ordine e la Chiesa, come era avvenuto nei primi secoli, avrebbe dovuto invitare a questa scelta tutti i suoi fedeli, liberandosi delle posizioni giustificatrici della guerra assunte dopo la svolta costantiniana.
Sono idee che vengono completate da Turoldo con l’esplicita affermazione che, per avere davvero la pace, occorre la scelta personale della nonviolenza. La riflessione su questo tema, iniziata negli anni della Resistenza a Milano, fu sviluppata in lui dalle vicende latinoamericane. Iniziò a occuparsene sempre negli anni del soggiorno fiorentino, quando fu invitato a partecipare al viaggio in Cile di 100 personalità della cultura internazionale d’America e d’Europa, preferibilmente cristiani e comunque non marxisti. Conobbe Salvador Allende e apprezzò il suo progetto politico ma, soprattutto, scoprì l’“altra faccia dell’Occidente”, quella appunto dell’America Latina, dove l’estrema povertà del popolo era in stridente contrasto con le grandi ricchezze dei ceti dominanti, e si realizzava una brutale repressione di ogni tentativo di cambiamento con la complicità degli Stati Uniti. Turoldo decise, naturalmente, di stare dalla parte dei poveri e degli oppressi. Ma come realizzare la loro emancipazione? Alla violenza del potere si rispondeva ricorrendo anche alla lotta armata. Anche preti avevano imbracciato le armi, come Camillo Torres. Rappresentavano l’idea che egli sosteneva di Resistenza come essenza dell’essere cristiano, “valore teologale” e “categoria dello spirito”? Fu una elaborazione tormentata. Turoldo ne parla in La morte come rivoluzione. La sua convinzione personale rimane quella di una totale nonviolenza. Comprende comunque la sofferenza di chi ha imbracciato le armi. Afferma di capire Camillo Torres, consapevole però di trovarsi in una difficile posizione: essere per la nonviolenza e non condannare, appunto, Camillo Torres. Ha molti dubbi. Spera in una “rivoluzione nonviolenta”, ma se l’alternativa è arrendersi alla brutalità delle dittature, si può “non condannare” chi risponde alla violenza con la violenza. La sua piena sintonia, però, è con la scelta nonviolenta di un grande esponente della Chiesa latinoamericana, Helder Camara e, ancor più se possibile, con Oscar Romero. Nella tragica situazione in cui si trovano i poveri dell’America Latina, egli incarna più di ogni altro l’idea di Chiesa e della sequela di Cristo che Turoldo coltiva. Vede la sua morte come un vero “segno dei tempi”, manifestazione della “Chiesa in cammino” con i poveri e gli oppressi, coraggiosa nel denunciare le violenze del potere perpetrate contro di loro per impedirne l’emancipazione. La sua morte, per questo, non è una sconfitta ma una vittoria, come quella di Cristo che quando va a morire dice: «Confidate in me, io oggi ho vinto il mondo». Aveva vinto contro il sistema, non con le armi e la violenza. Così Oscar Romero che, quando nel Salvador la repressione del governo e le violenze dei militari divennero insostenibili, ebbe il coraggio tutto evangelico di non tacere. Turoldo vede nella sua morte un “segno dei tempi”. In essa, infatti, è intervenuto Dio, direttamente, intenzionalmente, per “farsi capire”: la sua morte indica, come quella di Gesù, la croce come la vera via della pace.
Qui, nella testimonianza della nonviolenza come strumento di riscatto ed emancipazione per conseguire giustizia e pace, la riflessione “politica” e teologica di Turoldo, la sua visione biblica, la sua “poetica” e il suo impegno concreto a favore degli ultimi di ogni parte della terra, trovano il loro punto di congiunzione. Qui è direttamente coinvolta anche la Chiesa, perché posta di fronte alla questione se siano scindibili fede e umanità, fede e giustizia, fede e liberazione: se lo siano, in sostanza, incarnazione ed escatologia, storia e profezia. È una domanda fondamentale e drammatica. Sull’arcivescovo del Salvador era sceso un grande silenzio. Turoldo lo considerò una vera congiura in cui si trovava coinvolta anche una parte della Chiesa ufficiale, quando addirittura non approvava la violenza, come l’arcivescovo di Valparaiso che approvò la strage dei contadini in lotta per i propri diritti in nome dell’"ordine” che doveva essere mantenuto.

Nel suo impegno per la pace Turoldo non è mai legato a posizioni ideologiche e tantomeno “partitiche”. Si è sempre rifatto, invece, alla Bibbia. È un impegno che si è via via intensificato fino agli anni Ottanta sia in Italia sia appoggiando progetti internazionali di cooperazione. Era un profeta – come riconobbe il cardinal Martini - e, quindi, “scomodo”. Non voleva lasciare in pace nessuno, ricorrendo a un’intensa attività di editorialista e conferenziere, partecipando a manifestazioni, riunioni, iniziative, coinvolto spesso in aspre polemiche. Un’attività costante ed estesa per la pace la svolse da Fontanella di Sotto il Monte, dove si era stabilito nel 1963 e dove aveva fondato il Centro di studi ecumenici Giovanni XXIII e la Casa di Emmaus.
Gli anni ’70 e ’80, caratterizzati dalle tragiche repressioni in America Latina, dallo sfruttamento del Terzo Mondo, dal Cile e dalla guerra in Vietnam, dalla corsa agli armamenti sempre più massiccia in Europa, sono per Turoldo tempi da “sesto angelo” dell’Apocalisse, tempi di silenzio di Dio. Giunge a chiedersi se non si sia raggiunta la fine. Fine dell’uomo? ha titolo appunto la raccolta di poesie che fa uscire nel 1976. Ci si trova di fronte ad una radicale alternativa: o la notte oscura o la pazzia evangelica, o il male radicale o l’“impossibile possibilità” della redenzione e della resurrezione. Come credervi e sfuggire alla notte oscura?
L’angoscia di questa condizione personale si amplia tragicamente nella “visione” dell’olocausto verso cui il mondo sta correndo: quel giorno, scrive, neppure Cristo avrà più senso. Sarà il giorno dell’Errore, del fatale Errore, dell’inevitabile, incontenibile, infernale, ultimo Errore. Perché tutto avverrà per Errore: una sterminata Hiroshima, una Apocalisse atea o, meglio, una distruzione senza Apocalisse, cioè senza i cieli nuovi e la terra nuova, senza che le lacrime di tutti possano essere asciugate, sarà il risultato dell’aver voluto per ignavia che l’era della Follia regnasse sovrana. Poi sarà solo silenzio, l’assoluto silenzio. Il Nulla dunque, il Grande Male, trionferà secondo questa desolata profezia. In essa l’angoscia è totale. Anche Dio non c’è più: è stato ucciso, non poteva non esserlo, perché non è a nostra misura, quella appunto della follia nullificante che porterà alla distruzione del mondo per un banale errore.
È questo un punto di drammatica attualità, in cui il pessimismo e la disperazione di Turoldo raggiungono il livello massimo. È anche il punto, tuttavia, in cui emerge in tutta la sua forza la fede.
Nel continuo oscillare tra disperazione umana e fede nella Parola, in lui è quest’ultima a prevalere sempre. La disperazione, appunto, è solo umana. Ad essa si oppone la promessa della Parola di Dio, la fede nel futuro in cui l’imprevedibile farà cambiare le cose. Dunque, cominciamo da capo, esclama Turoldo, ripetendo le parole di Dio al termine dell’Apocalisse, non si deve cedere alla tentazione di abdicare di fronte alla paura della distruzione totale. È certo che il sogno di Dio riguardo al mondo e all’uomo verrà realizzato. Bello e meraviglioso sarà oriens ex alto: luce da luce splenderà più del sole. La creazione sarà finalmente senza peccato!