intervista a Stefano Levi Della Torre a cura di Umberto De Giovannangeli in “l’Unità” del 24 aprile 2024
Professor Levi Della Torre, cosa distingue a suo avviso una critica a Israele per ciò che sta perpetrando a Gaza da un atteggiamento antisemita?
La critica a Israele per il massacro a Gaza è doverosa. L’aggressione terribile di Hamas del 7 ottobre ha traumatizzato nel profondo Israele rinnovando memorie dei pogrom e del genocidio e rivelando una sua inattesa vulnerabilità. Israele ha diritto di reagire e difendersi? Negarlo sarebbe un sintomo antisemita. Ma a Gaza e in Cisgiordania Israele ha trasformato la guerra contro Hamas in guerra contro il popolo palestinese su due fronti, quello di Gaza e quello in Cisgiordania.
Difendersi dall’aggressione di Hamas è un dovere, difendersi dall’esistenza stessa del popolo palestinese è invece un crimine contro l’umanità, che oltre ai bombardamenti indiscriminati con bombe da più tonnellate, usa come strumenti di guerra la fame, la sete, il taglio dell’energia, la distruzione degli ospedali, la pulizia etnica. Colpevolizzare l’intero popolo palestinese, bambini compresi, come “terrorista” ha qualcosa di affine all’antisemitismo. Con i suoi crimini di massa Israele fomenta l’antisemitismo, lo risveglia come tradizione e lo incoraggia offrendogli argomenti basati sui fatti attuali. Se Israele ha diritto di esistere e di difendersi, anche i palestinesi ce l’hanno, di fronte alla sistemica aggressione di Israele nei territori occupati. Se ci sono organizzazioni palestinesi che praticano uccisioni e massacri indiscriminati ossia terroristici vanno combattuti e condannati; ma anche il massacro di Gaza e in Cisgiordania sono terrorismo su vasta scala, e ogni forma di terrorismo, di gruppo o di Stato, va condannata e politicamente combattuta. Tra Hamas e la politica di destra di Israele c’è stato un antagonismo collusivo. In che cosa collusivo? Entrambi convergevano nel rifiuto del compromesso di pace: Hamas rifiutava l’esistenza di Israele, la destra israeliana rifiutava l’indipendenza palestinese. Che cosa Hamas ha offerto alla destra israeliana? La spaccatura politica e geografica dei palestinesi. Che cosa Israele ha offerto a Hamas? La causa palestinese lasciata marcire senza prospettive, se non l’oppressione, l’apartheid, e la spoliazione sistemica, e Hamas l’ha strumentalizzata come motivazione politica della propria aggressione terroristica. L’antisemitismo è un problema persistente, che il massacro di Gaza sta aggravando. Incoraggia l’antisemitismo come tradizione secolare a uscire allo scoperto traendo, da destra e da sinistra, argomenti dai massacri attuali. Rassicurazione per gli ebrei, ora Israele diventa fonte di insicurezza. Punta avanzata dell’occidente nella zona di faglia con il Medio Oriente, ora Israele diventa un problema per l’occidente, mettendo in difficoltà i suoi appoggi, il suo consenso e le sue alleanze internazionali. Ora, se ogni critica viene respinta come “antisemita”, l’accusa di antisemitismo da scudo di difesa si ribalta: diventa una pretesa di privilegio, il privilegio di essere esentati dalla critica in memoria della Shoà, grazie alla quale ogni azione di Israele vuol farsi passare per sempre come “legittima difesa”. Ma ogni pretesa di privilegio si ribalta facilmente in accusa, in ostilità, in odio. Per questo l’accusa di antisemitismo deve essere molto ponderata per non vederla degenerare in abuso, a danno di Israele e degli ebrei nel mondo.
Non crede che sia un errore, culturale, religioso, politico, equiparare antisionismo e antisemitismo?
Molti ebrei, dentro e fuori Israele, si considerano non sionisti se non anti. Sionismo ed ebraismo non sono la stessa cosa: l’ebraismo è una tradizione, una cultura, una condizione storica, per molti è anche una religione. Il sionismo, anzi, i diversi sionismi, da quello laico socialista che ha fondato lo Stato a quello attuale ad egemonia nazionalista e fondamentalista, sono invece posizioni politiche, politicamente criticabili. Salvo che l’“antisionismo” non voglia esprimere l’idea che Israele, unico tra gli Stati esistenti, non ha il diritto di esistere, nel che affiora una discriminazione antisemita.
Molto si è discusso e polemizzato per l’uso del termine genocidio in riferimento alla morte di decine di migliaia di civili, tra cui 10mila donne e oltre 13mila bambini, a Gaza. Lei come lo definirebbe?
L’accusa di genocidio ha una risonanza particolare per gli ebrei e per Israele. Sullo sfondo della Shoah, non è difficile comprenderlo. Certamente, in questa accusa si infiltra l’intenzione di smantellare lo scudo di difesa che la memoria del genocidio nazista ha costituito per lunghi anni per gli ebrei e per Israele. Che le vittime per antonomasia si facciano carnefici, disinnesca il “prestigio” delle vittime e le loro pretese di un tabù difensivo. Io sospendo le mie conclusioni sulla fattispecie giuridica che riguarda i crimini contro l’umanità di Hamas e di Israele; una controversia che può diventare un alibi per spostare sul terreno dello scontro terminologico la questione oggi principale: che le persone, e in particolare gli ebrei, gli israeliani e i palestinesi non si esimano dal considerare i fatti, li giudichino, prendano posizione, si sforzino di elaborare che cosa è urgente nell’immediato e che prospettive politiche si debbano perseguire.
Vorrei restare sul tema della memoria e del suo uso politico e identitario, in particolare in riferimento alla Shoah.
I corpi scheletriti dei bambini della Striscia di Gaza morti di fame per l’assedio israeliano ci ricordano qualcosa che è piantato nella nostra memoria. La memoria della Shoah è stata di una qualche garanzia per gli ebrei nel mondo e per la nascita e l’esistenza stessa di Israele. Di fronte alle atrocità di massa che proseguono senza attenuazioni e attenuanti nella Striscia di Gaza, quella garanzia tende a ribaltarsi in accusa contro gli ebrei e contro Israele. Le vittime da proteggere e verso cui si è in debito si mostrano carnefici da combattere. Anche per liberarsi dal debito. L’antigiudaismo e l’antisionismo vanno crescendo nel mondo, da destra e da sinistra. Nel mondo ebraico sussistono due declinazioni della memoria della Shoah: la prima la intende “mai più per gli ebrei”, la seconda la intende “mai più per nessuno”, né come esito di genocidio, né come fatti che ne sono possibile premessa, come la persecuzione, la deportazione e le atrocità di massa. La prima interpretazione vede nella Shoà soprattutto il massimo crimine contro gli ebrei, la seconda vede nel massimo crimine contro gli ebrei il massimo crimine contro l’umanità. Poiché entrambe sono vere, hanno convissuto, ma ora si accentua il loro conflitto perché divergono le conseguenze politiche ed etiche che se ne traggono. “Mai più contro gli ebrei” porta a porre gli ebrei come le vittime per antonomasia, senza confronti e per sempre , per cui ogni violenza politico-militare di parte ebraica non sarebbe in ogni caso e indiscriminatamente che “legittima difesa”. Questa versione ha finito per diventare anima e strumento del nazionalismo di destra in Israele, e lo vediamo all’opera nella carestia indotta e nelle stragi indiscriminate nella striscia di Gaza, nonché nell’aggressione sistemica dei coloni in Cisgiordania. Atti che stanno aumentando l’ostilità contro Israele mettendo in crisi il suo prestigio, i suoi appoggi e le sue alleanze, ed esponendo gli ebrei nel mondo a un antisemitismo crescente. La “privatizzazione etnica” della Shoà, agitata come pretesa del privilegio di insindacabilità degli ebrei, fa il paio col “negazionismo” per screditarne la memoria. L’altra declinazione della memoria che vede nel genocidio degli ebrei un crimine contro l’umanità richiama invece la responsabilità universale, compresi gli ebrei, a prevenire e reprimere ogni atrocità di massa e genocidio. Pur senza garanzie, questa via non privatistica ma universalistica, sembra promettere qualcosa di più anche a protezione degli ebrei e di Israele. Mi lasci aggiungere una cosa che so essere dolorosa per la diaspora...
Vale a dire?
Il presentarsi come una corporazione univoca, l’assumere criteri avvocateschi e corporativi a protezione acritica da ogni critica è il maggior contributo che gli ebrei possano dare all’antisemitismo, a conferma dei suoi stereotipi. Specie se a propria protezione ci si arrocca a giustificare l’ingiustificabile, nella logica secondo cui tanti tra noi sostengono che gli ebrei, come vittima del massimo crimine, la Shoah abbiano il diritto a qualunque rivalsa su altri perché qualunque crimine di massa si compia da ebrei, non sarebbe che “legittima difesa”. Mentire per attenuare o giustificare la strage di Gaza è un regalo all’antisemitismo che non possiamo permetterci, e ci cadrà addosso nel tempo.
Lei è tra i firmatari di «Mai indifferenti», appello di voci ebraiche per la pace”.
L’indifferenza è sinonimo di complicità? L’indifferenza, come il non voler vedere, è sempre complicità, anche se passiva. Spesso è ispirata dal fatto di non saper o voler essere implicati, di non averne la forza, la competenza, la disponibilità di energia o di tempo. È naturale, normale. Non per questo è innocente. Senza volerlo è fatalmente collaborazionistica, perché crea l’ambiente favorevole a che il crimine, senza opposizioni, si compia.
In Israele almeno la metà della popolazione chiede le dimissioni di Netanyahu. Per la prima volta nella sua storia, la guerra non compatta l’intero paese attorno al Primo ministro.
Questo è vero, e dà motivo di speranza per una svolta radicale necessaria, che liberi Israele dalla condizione patologica dei territori occupati, la cui infezione prolungata trascina Israele verso il nazionalismo, e anche al razzismo diffuso. Ma non vedo una svolta possibile a breve. L’opposizione al governo Netanyahu è forte ed estesa, ma c’è un problema, la questione palestinese è marginale per questa mobilitazione d’opposizione, è divisiva, mentre è la questione principale. A me pare ormai che la questione tra israeliani e palestinesi non sia risolvibile tra i due contendenti, ma debba essere affrontata a livello regionale e internazionale, perché questa è la sua dimensione. La guerra ormai regionale deve sfociare in un processo di pace regionale, facendo convergere interessi e aspirazioni tra più parti. I patti di Abramo devono includere i palestinesi.