di Carlo Bolpin
Chiesa, Vangelo e coscienza cristiana
Papa Francesco continua ad affermare la nonviolenza come unica forma di legittima difesa possibile per il cristiano coerente con il Vangelo, superando la dottrina della guerra giusta. Anche negli ultimi discorsi di Francesco, malamente strumentalizzati da chi vuole un papa realista e non più evangelico, rimane il principio dell’opposizione al male della guerra. Francesco però afferma, invertendo la tradizionale dottrina cattolica, il principio fondamentale del primato della coscienza, alla quale in ultima istanza spetta giudicare nel caso concreto se è possibile o inevitabile il ricorso al male delle armi (che rimane un male).
Tradizionalmente invece la Chiesa delegava la decisione sulla valutazione del bene collettivo, e quindi anche della guerra all’autorità politica a cui la coscienza del singolo era tenuta a obbedire. Francesco è consapevole che la Chiesa deve essere capace di interpretare i “segni dei tempi”, le istanze fondamentali dell’umanità oggi, che sono la pace, la nonviolenza, la cooperazione tra i popoli, come condizioni per lo sviluppo umano. Francesco appare consapevole anche che per gli stessi cristiani occorre un processo lungo che capovolga secoli di prassi e di dottrina che hanno legittimato la violenza. Si pone, ad esempio, il problema dell’abolizione dei cappellani militari. Compito delle comunità cristiane è educare alla nonviolenza come modo di vivere e come metodo di azione politica e sociale, avviando processi educativi e organizzativi di azione popolare nonviolenta.
Escatologia e Profezia
Un tema viene proposto come decisivo dagli stessi cristiani (anche quelli “conciliari”, democratici che hanno fatto i conti con la modernità): nella storia il male è inevitabile e la guerra rimane necessaria, mentre la pace è un'indicazione profetica escatologica che riguarda l’al di là, i nuovi cieli dopo la seconda venuta di Cristo.
Due sono le osservazioni critiche di questa posizione.
In primo luogo, le beatitudini costituiscono prassi da vivere nelle concrete relazioni nella storia, qui ed ora, e l’escatologia non rinvia all’aldilà, ma indica le promesse di Cristo che i seguaci devono anticipare per valutare il presente e costruire esperienze di salvezza nelle situazioni storiche. Lo scarto escatologico genera l’attesa del futuro e chiama alla realizzazione nell’oggi.
La seconda considerazione necessaria è che è profondamente errata la contrapposizione tra profezia (come tensione utopica fuori della storia) e la responsabilità della decisione nella concretezza in cui male e bene si mescolano. Nella Bibbia, il profeta smaschera la visione fatalistica della storia, determinata secondo leggi inevitabili e necessarie del mondo, e legge le promesse interne alla storia stessa. La profezia parla a nome delle vittime e perciò ha la forza dirompente critica della situazione presente decisa dai potenti, che giustificano il male per un bene futuro; è la denuncia etica che chiama alla responsabilità e alla scelta personale. Non è quindi visione del futuro ma passione oggi per le vittime delle ingiustizie e del male, capacità di leggere e denunciare il presente e costruzione del futuro, pagando di persona, prendendo su di sé il male dell’altro, in prima persona e al posto dell’altro. Il profeta indica che viviamo nel presente il tempo della crisi, la fine di questo mondo e delle potenze del momento. Ogni potenza ha una fine, il tempo in cui viviamo termina; una nuova storia, un nuovo inizio, è però possibile, niente è inevitabile come legge della storia, che è sempre aperta. Occorre saper leggere i segni positivi, anche piccoli, i nuovi inizi e i nuovi soggetti, fuori delle logiche degli assoluti e degli idoli, delle Chiese, delle religioni, delle nazioni e delle potenze dominanti e decadenti.
Per leggere la prima parte: Sulla guerra e sulla pace