di Gabriele Scaramuzza
Proprio in questi giorni che segnano il rischio di nuove e più inquietanti escalation del conflitto russo ucraino il calendario ha posto il sessantesimo anniversario della promulgazione della Pacem in terris, l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, che vide la propria luce l’11 aprile 1963, pochi mesi prima della scomparsa di Papa Roncalli.
Pubblicata in un crinale drammatico della storia del ‘900, all’acme della guerra fredda, la Pacem in terris ha come antefatto storico la crisi dei missili di Cuba, che dal 16 al 28 ottobre 1962 tenne l’umanità sull’orlo del conflitto nucleare tra le due super potenze statunitense e sovietica, tanto che, come ebbe a dire Arthur Schlesinger, storico e collaboratore del presidente J.F. Kennedy, “non fu solo il momento più pericoloso della guerra fredda. Fu il momento più pericoloso della storia dell’umanità”.
Già in quel frangente Giovanni XXIII agì con originalità – per inciso, da pochi giorni era iniziato il Concilio Vaticano II, l’11 ottobre, con l’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia e la sera con lo straordinario “discorso della luna” di fronte ai fedeli in piazza san Pietro – indirizzando in due telegrammi lo stesso testo, al “signor Nikita Cruscev” e al “signor John Fitzgerald Kennedy”.
Come ha spiegato benissimo lo storico Alberto Melloni, in questo testo il Pontefice sceglie esplicitamente di lasciarsi alle spalle molta parte dell’elaborazione che la stessa Chiesa Cattolica aveva compiuto sull’ammissibilità o meno della guerra, e di non prendere parte tra i due contendenti, ma di prendere una terza parte, quella del “grido delle famiglie che chiede: pace, pace!”.
Non può stupire, pertanto, che pochi mesi dopo la crisi dei missili cubani e la sua risoluzione il pontefice decidesse di affidare a una lettera enciclica la riflessione propria e della Chiesa Cattolica sulla pace “fra tutte le genti, fondata nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”. Ed è probabile che fin da subito si fosse avvertito il valore straordinario di questo testo.
Prima di tutto perché lo stesso uomo Angelo Roncalli aveva verisimilmente contezza della gravità delle proprie condizioni di salute – morirà dopo poco meno di due mesi, il 3 giugno 1963 – e quindi del fatto che la Pacem in terris avrebbe costituito l’ultimo suo testo magistrale, quello in qualche modo destinato a raccoglierne l’eredità spirituale e di insegnamento. Poi perché, per la prima volta nella storia della Chiesa, una lettera enciclica non è rivolta solamente ad intra, al clero e ai fedeli, ma altresì all’umanità o, meglio, a “tutti gli uomini di buona volontà”.
E davvero quello della Pacem in terris è uno di quei pochi testi destinati a segnare non solo un pontificato o un’epoca della storia del mondo, ma di accompagnare le generazioni dell’umanità in ricerca, sia religiosa che laica, di una comune convivenza sulla terra. In primo luogo perché con nettezza emerge non tanto un rifiuto solo morale della guerra – se fosse stato così, sarebbe stata anche ammissibile la convivenza di tale rifiuto con l’ammissibilità della “guerra giusta” – ma piuttosto la stessa esclusione della guerra dall’ambito delle attività concepibili dall’uomo. Al paragrafo n. 67 dell’enciclica, uno dei più citati e noti, si afferma infatti che “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere usata come strumento di giustizia” (invero la traduzione latina del testo rende quel “quasi impossibile pensare” con alienum a ratione, letteralmente “estraneo alla ragione”).
L’altra ragione per cui la Pacem in terris costituisce un testo-guida in grado di perdurare nel tempo è che essa non è riducibile al rango di un “manifesto per la pace”, cosa di per sé già nobile e che ne avrebbe giustificato la redazione, bensì colloca la pace al centro di una rinnovata prospettiva antropologica, che tenta di ricostruire le condizioni per cui l’umanità possa ancora abitare fruttuosamente il pianeta nel XX secolo, l’epoca in cui la tecnica ha dispiegato il massimo suo potenziale nell’arma atomica, ma anche l’epoca che, nel momento in cui papa Giovanni vive e opera, conosce alcuni grandi cambiamenti, a partire dalla fine del colonialismo che aveva espanso l’occidente al resto della terra a partire dalla fine XV secolo. Non si può non pensare che un uomo di pace come Ernesto Balducci non avesse in mente questa prospettiva antropologica quando prefigurava l’”uomo planetario”.
Già al n. 5 infatti, parlando dell’ordine tra gli esseri umani si afferma “che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili” e, immediatamente dopo al n. 6: “Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Ancora, al n. 8 si precisa che “va inoltre e in modo speciale messo in rilievo il diritto ad una retribuzione del lavoro determinata secondo i criteri di giustizia, e quindi sufficiente, nelle proporzioni rispondenti alla ricchezza disponibile, a permettere al lavoratore ed alla sua famiglia, un tenore di vita conforme alla dignità umana”.
Ecco, la forza e il valore della Pacem in terris risiedono in questo nodo, nel cogliere la pace come l’ordine naturale attraverso cui ogni uomo può costruire un’esistenza dignitosa per sé e per le comunità religiose, politiche, culturali cui appartiene. E papa Giovanni legge in questo senso la storia del mondo che gli è contemporaneo, attraverso l’introduzione dei “segni dei tempi” – espressione destinata a rimanere viva nella vicenda della Chiesa Cattolica fino ad oggi.
Anche in questo caso, non siamo di fronte solo a una espressione felice e suggestiva, perché nella concezione di Roncalli i segni dei tempi sono le modalità con cui il Vangelo parla alla storia degli uomini. In particolare tre sono i segni che il papa di Sotto il Monte colloca nel testo, indicandoli propriamente come fenomeni che caratterizzando l’epoca moderna: l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, in cui è “vividamente operante l’esigenza di essere considerati come soggetti o persone in tutti i settori della convivenza”; l’ingresso della donna nella vita pubblica, perché in essa, “infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità”; infine, con riferimento al coevo processo di decolonizzazione, la consapevolezza che “tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti”.
Proprio per questa sua natura fondativa, la Pacem in terris è in dialogo con altri testi di analoga altezza: prima di tutte, e per esplicito riconoscimento al n. 75, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1948. Ma anche in via implicita, non può sfuggire come molti dei nodi individuati nell’enciclica trovino eco nella stessa Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio dello stesso 1948. Né poteva essere diversamente, perché il testo costituzionale italiano è frutto della sintesi tra le culture del cattolicesimo sociale, del comunismo e del socialismo italiani, dell’azionismo e del liberalismo che parteciparono alla lotta antifascista, a partire dal contributo che vi diedero personalità come Giuseppe Dossetti.
Né può essere taciuta la preoccupazione che il partito comunista italiano ebbe nel cogliere quello del disarmo e della pace nell’era atomica come una delle urgenze assolute e dei nuclei per un dialogo con i cattolici, come testimoniato dal “Discorso sul destino dell’uomo” pronunciato da Togliatti a Bergamo il 20 marzo 1963, poche settimane prima della pubblicazione dell’enciclica.
Certamente è legittimo asserire che, 60 anni dopo, il grido “pace, pace” di cui Giovanni XXIII si fece interprete continua a essere gridato dalle moltitudini di donne e uomini, in un mondo in cui 150 sono ancora i conflitti aperti. E si può anche sostenere che il processo preconizzato dai quei tre segni dei tempi è lungi dall’essere compiuto, anzi. Infatti le classi lavoratrici, anche se formalmente hanno avuto accesso, almeno in occidente, alla soggettività politica, vivono dinamiche di precarizzazione e, in troppe parti del mondo, è ancora ben viva la piaga del lavoro minorile. Anche la strada di emancipazione della donna è lungi dall’essere compiuta, pur considerando il fatto che, al momento, in Italia il presidente del Consiglio e la leader dell’opposizione sono donne. Infine, alla decolonizzazione politica purtroppo è seguito un neocolonialismo di natura economica, che tende a considerare i popoli del sud del mondo comunque come instrumentum regni del neoliberismo.
Dall’altro, può essere invece che in questi perduranti scandali risieda tuttora l’attualità della Pacem in terris, soprattutto l’idea che passa attraverso la pace una nuova lettura dell’uomo e del suo essere-nel-mondo. In effetti, letta con le lenti dell’enciclica, l’ostinazione con cui oggi papa Francesco chiede a tutti di porre fine al conflitto e dare orizzonte all’iniziativa diplomatica in Ucraina, oggetto di molte polemiche, è un esercizio di coerenza, come pure l’idea di una Chiesa che non se ne sta rinserrata in sé, ma sceglie di leggere i segni di questo tempo.
Infine, l’aspirazione a un dialogo permanente tra il deposito delle religioni e un rinnovato impegno di elaborazione da parte delle culture filosofiche e politiche sul destino comune dell’umanità è probabilmente l’appello che la Pacem in terris continua instancabilmente a porci ancora oggi, sessanta anni dopo.