I risultati di una recente ricerca
di Maurizio Ambrosini
Londra, un tempo la città più secolarizzata del Regno Unito, è diventata oggi la città più religiosa, punteggiata com’è di chiese, chiesette, sale di preghiera, moschee, templi, soprattutto nelle sue vaste periferie popolari.
Anche in Italia sta succedendo qualcosa del genere. Ne mostra quanto meno l’avvio una ricerca appena pubblicata presso il Mulino: Quando gli immigrati vogliono pregare, promossa dal Centro studi Confronti della Chiesa Valdese e dalla Fondazione Basso e curata da Maurizio Ambrosini, Samuele Molli e Paolo Naso.
L’indagine, svolta in Lombardia tra il 2020 e il 2021, ha intercettato infatti ben 347 luoghi di culto espressivi di una diversità religiosa, in quella che con ogni probabilità è la più ampia rilevazione di questo genere in Europa: 71 parrocchie ortodosse, 127 centri islamici, 41 chiese evangeliche (sulle 410 individuate), 85 comunità cattoliche, 15 templi sikh e 6 centri buddisti. I temi della ricerca hanno riguardato le forme di partecipazione, il profilo dei ministri di culto, la forme di solidarietà promosse dalle comunità, il ruolo delle donne, il rapporto con le giovani generazioni e con l’ambiente locale.
Quanto ai risultati, una prima scoperta riguarda il fatto che le religioni vissute, viste e analizzate dal basso, si assomigliano di più di quel che si potrebbe pensare partendo dai loro fondamenti dottrinali. Per esempio, tutte le religioni, anche quelle che all’origine non hanno un appuntamento settimanale per il culto, lo istituiscono quando sono trapiantate all’estero dagli emigranti. E’ il caso dei sikh e dei buddisti. Quando in patria sono prive di un clero, tendono a darsi delle guide religiose. In molti casi la domenica diventata un giorno di vita comunitaria intensa, con persone che arrivano anche da lontano per partecipare alla funzione religiosa, al pranzo comunitario, alle attività pomeridiane, spesso dedicate ai bambini. Le religioni non sono semplicemente trapiantate all’estero, ma subiscono processi di adattamento al contesto (la domenica come giorno festivo), pressioni dal nuovo ambiente sociale e istituzionale (avere degli interlocutori, dei responsabili della comunità con cui poter dialogare) e sollecitazioni imitative, nei confronti della religione storicamente prevalente nella nuova realtà e nei confronti delle iniziative di maggior successo delle altre religioni già insediate. E' un processo definito dagli studiosi “isomorfismo istituzionale”.
Del resto la religione non è mai soltanto religione, e questo è particolarmente vero nel caso degli immigrati. Queste persone, sradicate e trasferite in nuovi contesti. sebbene non immuni dai processi di secolarizzazione, trovano nelle proprie tradizioni religiose un ancoraggio identitario, un collante sociale, una fonte di speranza e di solidarietà. Ci sono coloro che emigrando abbandonano la pratica religiosa, e coloro invece che la ritrovano o la rafforzano. Le comunità religiose sono un porto sicuro, un punto di riferimento in primo luogo per uscire dall’isolamento e dalla solitudine. Costituiscono un crocevia per chi ha bisogno di medicine, per chi cerca un lavoro o una casa, per chi ha il problema del disbrigo di varie pratiche burocratiche: benché i mezzi siano limitati, si sforzano di rispondere ai bisogni dei membri e spesso anche, per quanto possono, dei non membri. Sono protagoniste di forme di soccorso sociale, di un “welfare dal basso”, come viene definito nella ricerca, che affonda le radici nei precetti religiosi di aiuto verso il prossimo.
Un altro risultato si riferisce alle motivazioni che spingono gli immigrati ad assumere responsabilità impegnative nelle loro comunità religiose, mentre in genere questo non avveniva in patria. Diventare presidente della comunità, economo, direttore del coro, responsabili delle collette o del pranzo domenicale, significa ottenere un ruolo ambito. Per persone che solitamente nella vita quotidiana occupano posizioni lavorative faticose e dotate di scarso prestigio, questa è un’occasione di riscatto, di visibilità e di rafforzamento dell’autostima.
Le comunità musulmane sono quelle che attraggono più attenzione e subiscono maggiori polemiche e ostracismi. Dalla ricerca emerge invece la loro volontà di mostrarsi leali con la società italiana e le sue istituzioni. Ci tengono a prendere le distanze dalle forme di fondamentalismo, condannano gli imam fai-da-te ed esprimono una volontà collaborativa verso il paese che le ospita, come è avvenuto concretamente con le collette e le forme di aiuto organizzate durante il confinamento per la pandemia. Rispetto al passato, hanno oggi responsabili religiosi più preparati, spesso provenienti dall’estero e affiancati da giovani istruiti, cresciuti e formati in Italia, che assumono soprattutto compiti di relazione con le istituzioni italiane e di soluzione dei complessi problemi burocratici che le comunità devono fronteggiare.
Paradossalmente, si riscontrano dei problemi nei rapporti tra le Chiese locali e gli immigrati cattolici. Questi rischiano di essere dei figli di nessuno: gli uffici preposti al dialogo ecumenico e interreligioso non li seguono, le parrocchie nemmeno. Gli immigrati cattolici si auto-organizzano, in forme spesso sostanzialmente auto-cefale, con preti che rimangono con loro solo qualche anno, oppure non condividono le loro origini. Le donne sono spesso le guide trainanti di queste comunità, che se ne stanno sostanzialmente per proprio conto. Da parte delle istituzioni ecclesiali, oltre a un sostegno logistico (affidare loro qualche chiesa non più officiata) si nota una difficoltà a fare un passo in più per conoscere meglio queste comunità e integrarle nel tessuto diocesano.
In definitiva, il sospetto che le comunità religiose immigrate favoriscano processi di chiusura e forme di settarismo non ha trovato molto riscontro nell’indagine. Favorendo l’integrazione delle persone sotto il profilo materiale, ossia aiutandole a trovare lavoro, casa, servizi sociali, alimentando il benessere e l’equilibrio personale, aiutando le persone a ritrovarsi e a vivere momenti di socialità, offrono un contributo all’integrazione degli immigrati, soprattutto nelle periferie difficili delle nostre città, che andrebbe meglio conosciuto e valorizzato.