di Stefano Levi Della Torre

1) Il dramma delle migrazioni è una ferita nelle sue origini, nei suoi percorsi e nei suoi approdi, una ferita che rimarrà aperta per un tempo non Le persone di buona volontà ne cercano cure e rimedi ma non possono dare soluzioni. È una mutazione storica, eppure si presenta come emergenza. Tanto più per i suoi aspetti tragici che impongono l’affanno di salvare vite. Questo non può che essere una priorità, un’urgenza a cui non si può derogare, contrapponendo ad essa il problema immediatamente successivo, reale e arduo, quello di dare accoglienza e prospettiva ai salvati e ai migranti nei paesi di arrivo.

Salvare vite è un imperativo etico inderogabile che però non è ancora una politica, e anzi sfocia inevitabilmente in un groviglio politico e in una reazione sociale, che alimenta una destra che sta aggredendo la democrazie e lo Stato di diritto. Il fatto che esistano movimenti “per la vita” che si accanisco- no per la salvezza degli embrioni mentre tacciono sulle persone che muoiono in mare o persino appoggino la politica che li lascia annegare e non concede sbarco, non solo smentiscono se stessi, ma rivelano una vocazione propria- mente razzista: i “nostri” embrioni devono assolutamente essere salvati, le vite degli “altri” possono soccombere.
Le persone di buona volontà cercano di costituire nei fatti, là dove posso- no, la sequenza salvezza-accoglienza-inserimento sociale, ma stentano a costituire una linea politica, che corrisponda alla dimensione geopolitica della questione. Che sappia cioè incidere sulle sue cause (le guerre, l’oppressione, il degrado economico, le crisi ambientali) e sui suoi percorsi (la traversata dei deserti, i campi di detenzione, la speculazione sul traffico umano). Percorsi lungo i quali si moltiplicano i crimini. Non ultimi quelli dei governi europei che rifiutano ogni accoglimento di migranti o quello inaugurato dal ministro Minniti, secondo cui i respinti sopravvissuti debbano venir restituiti ai Lager libici, dalle cui atrocità avevano cercato di salvarsi, pur sapendo di rischiare la morte, o quello di finanziare il dittatore turco Erdogan perché recluda nei suoi campi i migranti preservandone l’Europa.
Quella che invece si presenta fittiziamente come politica chiara e quindi per molti convincente è la linea della destra, che vanta d’ergersi a scudo intransigente contro l’”invasione”. Per un certo tempo l’immigrazione reste- rà un grande affare per la destra. La sua dichiarata intransigenza a difesa dei confini nazionali le fa gioco persino quando così spesso fallisce, dimostrando quanto grande sia la potenza contro cui eroicamente la destra si batte e aumentando l’allarme e la domanda di protezione, di cui la destra si nutre. Così la destra è interessata ad abbattere per legge gli stessi diritti costituzionali a protezione dei richiedenti asilo, è interessata non a ridurre, ma anzi a estendere l’area dell’irregolarità, distruggendo i luoghi dell’accoglienza e dell’inserimento sociale e lavorativo: più gente senza diritti e senza attività, costretta a vagare per le città, ad accamparsi per strada, a sopravvivere con la questua o con lo spaccio o la micro-criminalità, non può che aumentare il fastidio e l’ostilità sociale a vantaggio della destra. Il ministro dell’ordine interno è interessato a produrre il disordine, nella stessa logica con cui, si dice, una guardia forestale diventa piromane per dare enfasi alla necessità del proprio ruolo di spegnitore degli incendi. 

2) È vana la retorica che, contro la destra, sostiene che l’immigrazione sia una risorsa piuttosto che un problema. È innegabile che si tratti dell’una e dell’altra Ma sottovalutarla come problema significa assumere il punto di vista di quelle zone sociali privilegiate che dall’immigrazione traggono soprattutto vantaggio (si pensi, ad esempio, al fenomeno delle badanti) in termini di bassi salari, in quelle zone urbane cioè in cui la sinistra ancora tiene, ma in termini più di valori etici che non di linea politica peraltro inconsistente. E, per converso, significa l’essere sordi, se non sprezzanti o moralistici, nei confronti del punto di vista di quelle fasce sociali, estese e periferiche, che con gli immigrati sono destinate a convivere nel mutamento e degrado dell’ambiente e nella commistione di mentalità, e ne percepiscono la concorrenza nell’uso degli spazi, sul mercato del lavoro, nell’abbattimento dei salari, nell’erogazione della sanità e dell’assistenza, mentre una crisi non di congiuntura ma epocale va riducendo lo Stato sociale e le garanzie del futuro.
Non che il richiamo ai principi etici dell’accoglienza, della solidarietà, della salvezza delle vite non sia essenziale. Restare umani è ora un’impresa necessaria e controcorrente, tanto più quando la destra giunge a concepire l’umanità come reato, incriminabile quale connivenza con l’”invasione”. Purché si facciano i conti con la discriminante sociale e politica tra chi può permettersi il lusso dell’etica e chi deve combinare l’etica con altre urgenze: con la fatica delle proprie necessità e della propria perdita di posizione. Sono, questi, i ceti medi impoveriti, i lavoratori produttivi, i disoccupati, tra cui in particolare le donne e i giovani: un popolo attratto dal populismo per riaffer- mare contro le minoranze il proprio diritto di maggioranza.
Nello spostare verso destra questo “popolo”, nel sollecitare la gelosia sociale degli autoctoni contro gli immigrati (“perché preoccuparsi di loro, minoranza estranea, quando si trascura noi, maggioranza autoctona?”), nul- la di più efficace di una politica che, in nome della sinistra, ha aderito al liberismo, contraendo i diritti collettivi del lavoro dipendente e delle partite IVA, insieme umiliandone la dignità sociale e simbolica. 

3) Visto il successo popolare della polemica populistica contro le élites (polemica che ha pure qualche fondamento), non è stupido Salvini nel suo intento rocambolesco di equiparare élites e immigrati: dei quali parla in termini di “pacchia”, di traversate da diporto, di privilegi, di guadagni pro- Élite chi si occupa di immigrati con intenti mondialisti, antinazionali e anticattolici, élite gli immigrati stessi, gli uni e gli altri parassiti del “popolo”. Ma nella retorica della destra, l’immigrato riveste un’ulteriore funzione metaforica: se la globalizzazione induce la sensazione che grandi forze indecifrabili (dall’UE al gioco dei mercati e finanziari) ci invadano e interferisca- no pesantemente nella nostre concrete condizioni di vita, l’immigrato ne è la figura visibile. È “ipostasi”, rappresentazione antropomorfa dell’invadenza capitalistica globale. Mentre si divarica la forbice tra ricchezza e povertà, tra appropriazione ed espropriazione, questa magia “teologica” permette alla destra di rovesciare i termini del conflitto: invece di lottare contro l’alto del potere, incita a lottare contro il basso, i migranti, in cui i “poteri forti” surrettiziamente si rappresenterebbero. 
Viene così proposto un rovesciamento del conflitto, non dal basso verso l’alto, ma dal basso verso il più basso: un fronte che oppone una massa impoverita, che rivendica la propria sovranità di maggioranza territoriale, a una minoranza migrante e deprivata. 

4) Le nostre indignazioni nei confronti dei populismi possono essere ottuse se ci esimono dal riconoscere come essi rappresentino una questione della massima importanza: la sofferenza e la rivalsa dello spirito di maggioranza. Già nel 2011 il movimento “Occupy Wall Street” contro i vertici del potere finanziario l’aveva segnalato, ma con spirito internazionalistico, nel suo slo- gan “siamo il 99%”. Ora, i populismi dimostrano ovunque d’essere un pericolo per lo Stato di diritto e per la democrazia rappresentativa, nondimeno la democrazia si basa sul diritto della maggioranza a governare, mentre la qualità della stessa democrazia si misura su quanto sia capace di rispettare i diritti delle minoranze. Ma se poi i diritti civili a vantaggio delle minoranze prevalgono a scapito dei diritti sociali dei più, e si riflettono nel moralismo fastidioso del “politicamente corretto”, si scatena la gelosia sociale delle maggioranze, che diventano ostili alle minoranze viste come privilegiate, e perciò antagoniste e nemiche. Anche per questo ha vinto Trump, sostenuto dalla rivalsa dei lavoratori bianchi, che si sentivano minacciati dalle minoranze etniche nel loro privilegio di maggioranza “razziale”.  

5) Una minoranza, in quanto tale, è immersa in una maggioranza da cui non può prescindere e con cui può evitare di fare i conti. L'altro lo è inevitabile. Una maggioranza può invece pensare di prescindere da una minoranza, e può invece pensare di prescindere da una minoranza, e può assumere diversi atteggiamenti, a seconda della propria disposizione democratica, o inclusiva o esclusiva. I populismi hanno la tentazione di pretendersi "il popolo", cioè la stragrande maggioranza. Ne consegue la tendenza autoritaria a concepire l'altro come un resto impopolare e detestabile, in quanto inutile o dannoso. Fino a smentita. Dunque, tra spirito di maggioranza e spirito di minoranza c’è una radicale differenza nel concepire il rapporto con l’”altro”: il punto di vista di minoranza concepisce l’altro: il punto di vista di minoranza concepisce l'altro come una circostanza inevitabile, nel bene e nel male, mentre il punto di vista di maggioranza concepisce l’altro come un fatto avventizio, che può essere accolto o tollerato, discriminato o respinto. Nel la globalizzazione, che ci proietta nel contesto del mondo, siamo tutti minoranza (gli stessi cinesi sono solo un miliardo e mezzo a fronte dei 7 miliardi dell'umanità), e il punto di vista di maggioranza diventa insicuro di sé, inducendo reazioni sovraniste che cercano di preservare o ricostruire le proprie condizioni di maggioranza entro confini limitati, al riparo dal mondo. 
Parafrasando un detto attribuito da Plutarco a Giulio Cesare: “Meglio essere il primo [o maggioranza] in un villaggio delle Alpi che il secondo [o in minoranza] a Roma”, si può considerare quanto sia questo il criterio che spinge i populismi, nella loro vocazione maggioritaria, a chiudersi entro i muri provinciali del nazionalismo.

Esodo, 1/2019, "Ricordati che sei stato straniero", pp. 36-39