di Giannino Piana
Il 22 febbraio scorso la Congregazione per la dottrina della fede rispondeva negativamente a un quesito relativo alla possibilità di impartire una benedizione a unioni di persone dello stesso sesso. Che cosa ne pensi? E quali sono le motivazioni?
Confesso anzitutto la mia perplessità di fronte a una presa di posizione che ritengo per lo meno anacronistica. Mi sembrava che, anche grazie alle aperture di papa Francesco, si dovesse procedere in una direzione diversa, riconoscendo la positività di un’unione stabile tra persone dello stesso sesso, e che questo dovesse trovare sbocco anche nella possibilità di ricevere una benedizione.
A conferma della fondatezza di questa mia convinzione segnalo la recente pubblicazione di un interessante volume di Aristide Fumagalli, docente di etica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano dal titolo emblematico L’amore possibile. Persone omosessuali e morale cristiana (Cittadella Editrice 2020) con la Prefazione del vescovo Marcello Semeraro divenuto nel frattempo cardinale, nel quale si sostiene apertamente e con serie argomentazioni la possibilità di vivere nel rapporto omosessuale l’“amore cristiano”. Venendo alle motivazioni addotte dalla Congregazione per la dottrina della fede per dire di “no” alla benedizione delle coppie omosessuali mi pare si possano ricondurre a due. La prima riguarda la natura dei “sacramentali” (a tale categoria appartengono le benedizioni), i quali – come si legge nel documento – “vanno concessi soltanto nelle circostanze ordinate a servire ciò che è conforme al disegno divino”; disegno per il quale la prassi sessuale è legittima soltanto nell’ambito del matrimonio tra uomo e donna. La seconda è invece legata al rischio di una possibile confusione tra benedizione e matrimonio-sacramento, tra i quali – si afferma citando l’Amoris laetitia di papa Francesco – non è possibile istituire analogie neppure remote. Ambedue le motivazioni appaiono decisamente fragili. Nel primo caso perché si dimentica – come ripetutamente ha osservato lo stesso papa Francesco – che i sacramenti e i sacramentali sono offerti all’uomo come sostegno alla propria debolezza; che non sono perciò frutto di un comportamento meritorio, ma di un atto gratuito di Dio, che viene incontro alla fragilità umana; nel secondo caso perché la distinzione tra sacramento e benedizione è netta ed è dunque assai improbabile il pericolo della confusione.
La risposta della Congregazione ha un carattere vincolante tale da non consentire la prosecuzione della prassi? O c’è ancora spazio per una valutazione di coscienza da parte dei singoli sacerdoti?
Non so dire con precisione a quale nota teologica è possibile ascrivere tale documento. Posso in ogni caso ricordare che si tratta di un intervento autorevole, ma soggetto a possibili ripensamenti in futuro, come è del resto avvenuto a proposito di altri analoghi interventi del magistero. D’altra parte, La prassi della benedizione era piuttosto diffusa in alcuni Paesi del Nord Europa, in primo luogo la Germania, dove si erano dichiarati favorevoli anche alcuni vescovi tra i quali lo stesso Presidente della Conferenza episcopale. Non sarà facile far recedere da tale prassi sacerdoti che l’hanno da tempo inserita nel loro progetto pastorale. Credo inoltre che vi sia uno spazio della coscienza all’interno del quale ognuno è chiamato a esercitare il discernimento, tenendo conto di una molteplicità di fattori, legati alla concretezza delle situazioni.
Che significato riveste la benedizione?
Ho in parte già risposto a questa domanda, sottolineando come la benedizione non è fatta per i santi, ma per coloro che sperimentano la debolezza umana e fanno appello all’aiuto di Dio per vivere situazioni difficili. Ovviamente anche nei sacramentali, oltre che ovviamente nei sacramenti, non si tratta di un atto magico che assicura di per se stesso l’aiuto; ma di un atto che presuppone la disponibilità dell’uomo ad accogliere tale aiuto riconoscendo la propria povertà. Non si può ovviamente scordare accostando la condizione delle unioni omosessuali, che sussistono difficoltà rilevanti (e specifiche) a vivere la relazione di coppia, non tanto per cause interne al rapporto, ma per ragioni legate al mondo esterno, che, nonostante gli importanti passi avanti fatti negli ultimi decenni, non si è ancora del tutto liberato da atteggiamenti di diffidenza. L’omofobia ancor oggi assai diffusa, in molti casi semplicemente in maniera inconscia, crea (e non può che creare) condizioni di marginalità.
Il giudizio negativo della Congregazione si riferisce all’esercizio della sessualità non invece alla valorizzazione del rapporto d’amore. Non deve forse essere quest’ultimo il vero (e primario) criterio della valutazione morale?
È questa – come giustamente rilevi – la vera ragione del “no” della Congregazione per la dottrina della fede. Il rifiuto è dovuto – come si legge nel documento – al fatto che pur riconoscendo alle unioni omosessuali la presenza “di elementi positivi che sono pur da apprezzare e valorizzare”, non si ritiene che tale presenza sia “comunque in grado di coonestarle e renderle quindi legittimamente oggetto di una benedizione ecclesiastica, poiché tali elementi si trovano al servizio di un’unione non ordinata al disegno del Creatore”. Questo disegno implica – come si è già ricordato – il rifiuto della prassi sessuale fuori del matrimonio uomo-donna. Dietro a questa motivazione vi è senz’altro ancora una visione negativa della sessualità, che risale al passato e che è tuttora, sia pure in modo più attenuato, persistente. Il che impedisce che – come tu stesso affermi – non si consideri la qualità dell’amore come il vero (e primario) criterio della valutazione morale del comportamento, tanto nei rapporti eterosessuali che omosessuali. Se non si uscirà da questa impasse, non si potrà attribuire all’unione omosessuale il carattere di una relazione umanamente significativa e tanto meno di una relazione nella quale è possibile vivere l’“amore cristiano”.
Il richiamo presente nel documento a considerare il matrimonio come essenzialmente finalizzato alla procreazione non nasconde una visione tradizionale superata?
Sono pienamente d’accordo. In realtà la tradizione cristiana (in particolare negli ultimi secoli quella cattolica) ha a lungo coltivato questa visione, che rispondeva in parte anche alle istanze di un contesto socioculturale nel quale la fecondità era concepita come il valore preminente del matrimonio. Per questo motivo l’unione omosessuale era definita come una relazione “contro natura” e stigmatizzata come gravemente immorale. Il Vaticano II sembrava averci liberati da questa visione. L’abbandono della dottrina tradizionale dei fini, che privilegiava il fine procreativo, è sostituita, nella Gaudium et spes, dalla centralità assegnata all’“amore fecondo”, dove amore e fecondità vengono visti come fattori interdipendenti, e dove tuttavia il primato va assegnato all’amore dal quale scaturisce la fecondità vera – quella umanamente significativa – la quale non deve venire identificata totalmente con la procreazione, ma deve aprirsi a un campo molto più vasto di espressione al servizio della società e della Chiesa. Purtroppo a leggere il documento della Congregazione della dottrina della fede si ha la chiara percezione che questa visione non è ancora recepita.