di Vittorio Capecchi    

(articolo pubblicato sulla Rivista Il Mulino 8/1967, n. 178, pp. 658-682, ora ripubblicato sulla sua versione online www.rivistailmulino.it, e su www.inchiestaonline.it). 

Don Lorenzo Milani è nato a Firenze il 27 maggio 1923 e vi è morto il 26 giugno 1967. Sono passati cent’anni dalla sua nascita e cinquantasei dalla sua morte e il suo messaggio è ancora attuale;  in grado di porre interrogativi e suscitare discussioni nella chiesa  e nella società. In quella lontana estate del 1967 scrissi un saggio lungo e appassionato che pubblicai sulla rivista “Il Mulino” del mese di agosto 1967. Leggere un proprio scritto di oltre cinquanta anni fa è sempre
uno strano incontro. Il Capecchi di oggi è certamente diverso da quel Capecchi che ha comunque influenzato il Capecchi successivo. Ho ripubblicato il testo integralmente e le citazioni  di Don Milani sono riprodotte con questo diverso colore. 

A 44 anni, alla fine del giugno scorso, è morto di leucemia Don Lorenzo Milani. Era nato il 1923 a Firenze ma aveva passato tutta la sua infanzia e adolescenza a Milano. La sua famiglia era di radicate tradizioni intellet­tuali.

Il nonno un notissimo archeologo (a Firenze c’è anche un monumento in suo nome), la madre una raffinata signora israelita, il padre un profes­sore universitario. Una famiglia quindi in cui la cultura più sofisticata era di casa, ma in cui non vi era alcun accenno di problematica religiosa. Fece il liceo a Milano e si iscrisse ad architettura andando anche un anno in Francia per studiare con Le Corbusier. Tutto lasciava prevedere, dato il tipo di famiglia e la brillante riuscita negli studi, una rapida quanto fortunata carriera da intellettuale universitario. Invece, improvvisamente, con la violenza di una conversione totale, Lorenzo Milani decide di diven­tare Don Lorenzo. Fu una rottura totale e definitiva con il mondo passato. Egli decise di vivere da povero a favore dei poveri («chi non decide di prender partito dopo quindici giorni è dalla parte dei ricchi») e, dopo aver rinunciato al fascino di una vita cosmopolita, alle raffinatezze delle discussioni salottiere, ai piaceri della ricerca scientifica, abbandonò, nel mo­mento della sua entrata in seminario, anche l’ultimo aspetto vistoso che può avere un figlio di intellettuali: il tipo di linguaggio. Don Milani prese così, come suo, il linguaggio dei poveri montanini chiusi nella loro solitu­dine, dei contadini smaniosi di venire in città, degli operai sfruttati e oppressi dai vari padroni. Con questo linguaggio duro, scomodo, impastato di realtà, si avvicinò ai poveri per far di loro prima di tutto degli uomini vivi e responsabili e poi dei cristiani veri.

Fu così che durante la sua vita solo tutti i poveri che lo conobbero lo compresero e lo amarono in pieno mentre, tra i non poveri, molti (troppi) lo travisarono quando non lo avversarono.
Nel 1947 fu ordinato sacerdote e nominato vicario cooperatore nella parrocchia di S. Donato («la mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Ti­midi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa») ed iniziò subito una scuola per questi poveri montanini e campagnoli.

Le esperienze di questa scuola, unitamente ad una descrizione della sua parrocchia (una descrizione curata fin nei minimi particolari piena di un amore totale per i poveri ma nello stesso tempo impietosa perché « chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama ») sono descritte nel suo libro Esperienze pastorali uscito nel 1958. Questo libro permetteva di identificare immediatamente i due tipi di sacerdoti (e laici) cattolici per i quali Don Milani non poteva che essere uno «scandalo».

C’è infatti un tipo di sacerdote cattolico che per non avere scelto con decisione i poveri ha scelto i ricchi e si è contentato di un ruolo ritualistico burocratico all’interno della Chiesa; «amministrare» i sacramenti, inaugu­rare fabbriche con relativo banchetto insieme all’industriale di turno («caro padre assaggi questo vinello…»), sentire la missione apostolica come l’orga­nizzazione di una serie di uffici che producono riviste in serie, uomini in serie, propaganda nei momenti elettorali ecc... sacerdoti lontani, lontanis­simi dai poveri e dalle dure parole del Vangelo.

Ma c’è anche un altro tipo di sacerdote (e anche di laico naturalmente) a cui Don Milani non ha certo risparmiato le sue critiche. Si tratta del sacerdote che giudica di destra il prete amministrativo di cui sopra e si proclama pertanto di sinistra, il più a sinistra possibile. Legge l’Espresso, fa conferenze sulla Chiesa dei poveri e sull’importanza del laicato, conosce tutti i libri di avanguardia e li sa citare (sono libri progressisti pieni di citazioni che rinviano ad altri libri ancor più pieni di citazioni e così via), sembrerebbe insomma quanto di meglio si possa avere ma anche lui nelle sue azioni, è lontano, lontanissimo dai poveri e dalle dure parole del Vangelo.

Si spiegano così le incomprensioni che Don Milani ricevette nella dio­cesi fiorentina. Probabilmente per Mons. Florit (attuale arcivescovo di Fi­renze) che fece ritirare il libro Esperienze pastorali nonostante fosse uscito con l’imprimatur, Don Milani era un tipo originale che faceva un dopo­scuola, un giovane di buona famiglia che usava un linguaggio volgare e poi, quei cattolici progressisti, quelli del tipo «a sinistra», non lo dipin­gevano come un amico del marxismo… uno forse vicino all’eresia?

Vicino all’eresia… Don Milani era conficcato nella Chiesa di Cristo. Ma uno che segue alla lettera il Vangelo e le leggi della Chiesa fa paura, fa sentire a disagio, fa avvertire l’anticipazione di un giudizio dato con amore ma giusto, impietosamente giusto.

E allora, se uno è un prete amministrativo, meglio pensare questo Don Milani come un tipo strano, da allontanare e delimitare; oppure, se uno è un prete o un laico di quelli sempre più a sinistra, meglio pensarlo come uno che è « fine » andare a trovare come « un caso » per poi citarlo in qualche raffinata conferenza.

E così Don Milani, quello che avrebbe potuto essere un osannato pro­fessore universitario, fu nominato nel 1955 parroco di Barbiana a Vicchio di Mugello, una delle più sperdute frazioni della diocesi. Ma anche da Barbiana Don Milani (che faceva scuola ai suoi poveri tutto il giorno) era «sconcertante» perché in quell’ambiente sperduto egli formava uomini1 e si continuava a parlare di lui. Però, almeno non dava alle stampe nulla che potesse uscire dalla diocesi. Per il dispiacere dei quieti vennero invece anche delle testimonianze pubbliche.

Nell’ottobre del 1964 egli scrisse e rese pubblica una lettera (riportata da Questitalia, numero 77-78) indirizzata all’Arcivescovo Mons. Florit. Era una lettera che voleva instaurare un dialogo concreto. Vi erano infatti frasi come «Non è con i telegrammi di auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al Vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sacrestia. Perciò, prendendo spunto dal caso Bonanni abbiamo pensato di proporre a tutti i sacerdoti fiorentini l’inizio concreto di un dialogo: Chiediamo all’Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai dal Papa e perfino dai comunisti».

Ma l’Arcivescovo, erede-vittima di una tradizione di preti amministrativi, rispose (Questitalia, numero 79) nel modo più burocratico e risentito pos­sibile invitando i due sacerdoti a scegliersi un’altra diocesi : «Per i due sacerdoti che in questi giorni, tanto avventatamente e nella forma più inop­portuna hanno dato a me, loro Vescovo, pubblico motivo di sofferenza e alla comunità diocesana ragione di frattura e dissenso, chiedo al Signore che non venga meno la loro fede. Tengo a rilevare che essi potranno otte­nere da me, in ogni momento, la lettera di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze».

Così per Don Milani, sacerdote conficcato nella Chiesa, oltre alle soffe­renze corporali («sette anni di dolori fisici spesso atroci») si aggiungeva il dolore di essere considerato non un normale ligio esecutore delle parole di Cristo e della sua Chiesa, ma un marginale, uno che è bene si cerchi una Diocesi speciale, fatta su misura.

D’altra parte accadevano nel mondo cose troppo gravi per tacere.

Nel febbraio del 1965 i cappellani militari in congedo per la Toscana pubblicarono un ordine del giorno in cui dicevano che è «un insulto alla patria la così detta obbiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Era una cosa troppo grave e Don Milani scrisse allora una lettera che fu pubblicata integralmente solo da Rinascita ed in cui c’era tutta la paura che i suoi poveri potessero essere affascinati da false idee di patria, da obbedienze ad ogni costo, da una supina accettazione di ordini che potevano essere infami e contro di loro.

In questo caso la reazione fu violenta. La Nazione (il giornale che, come diceva Don Milani «considera la vita di un bianco più di quella di cento neri») scrisse parole squallide. Lo Specchio usò toni ancora più offensivi: «Contro questa preteria rossa, tanto più pericolosa perché si guarda bene dal saltare il fosso dichiarandosi apertamente comunista è nostro diritto e dovere porre in guardia il pubblico… a mente più serena ci rendiamo conto che chiamare mascalzone un uomo tanto poco assistito dalla ragione e dall’equilibrio è assurdo» ed anche Mons. Florit intervenne con una lettera al clero del 14-4-1965 in cui si affermava che «dal punto di vista teologico morale… ad ogni modo vale il principio che il singolo cittadino non può essere giudice competente giacché è praticamente impos­sibile all’individuo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità e alla ingiustizia degli ordini che riceve. Deve, pertanto, essere riconosciuta la presunzione di diritto in favore dell’autorità dello Stato, anche se questo Stato non riconosce nella sua legislazione l’obbiezione di coscienza… La­sciando al Signore il giudizio sulle intenzioni è fin troppo facile rilevare come le affermazioni incontrollate e gli estremismi verbali di certe lettere aperte, dei comunicati non meditati, delle interviste inconsulte, siano imme­diatamente strumentalizzate dagli organi di stampa di destra e di sinistra».

Le forze conservatrici (liberali, fasciste e religiose) erano ancora una volta compatte contro Don Milani ed un gruppo di ex combattenti lo denunciò al procuratore della Repubblica di Firenze per cui si ebbe il processo. Don Milani scrisse allora una sua lettera ai giudici che è un docu­mento bellissimo ed in cui si diceva che occorre «dire ai giovani che essi sono tutti sovrani per cui l’obbedienza non è ormai una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

Il processo terminò con una assoluzione (febbraio 1966) ma ormai Don Milani stava per terminare i suoi «sette anni di dolori fisici spesso atroci». D’altra parte i ragazzi poveri della sua scuola di Barbiana erano già uomini, pronti ad entrare nella vita e con il loro libro Lettera ad una professoressa, uscito poco prima della sua morte, essi stavano dimostrando di poter e saper continuare il messaggio di Don Milani.

In una società che, come ha scritto Don Milani, ha «fornicato col libe­ralismo di De Gasperi e coi congressi eucaristici di Franco» le sue parole si ricollegano a quelle di quei pochi cattolici e di quei pochi non cattolici che hanno testimoniato a favore dei poveri. Pensando ai non cattolici ho in mente, mentre scrivo queste righe, Antonio Gramsci. Gramsci è vicino a Don Milani per la coerenza della sua vita a favore degli oppressi, nono­stante le sofferenze fisiche e morali, per la volontà di documentare scientificamente ed analiticamente le proprie affermazioni anche quando potreb­bero darsi per scontate, per la critica agli intellettuali che si allontanano dai poveri lasciandoli in balia della cultura e dei valori borghesi, per l’ur­genza avvertita di una scuola unitaria veramente per tutti. Certo ci sono anche delle differenze di fondo (l’autentico marxismo di Gramsci e l’auten­tico cattolicesimo di Don Milani lasciano tracce profonde) e c’è anche una diversa strategia operativa ed un differente linguaggio. Gramsci, il figlio della povera borghesia sarda, ha amato i poveri pensando di aiutarli attra­verso un partito di intellettuali aperti; Don Milani, il figlio degli intel­lettuali lombardi, ha amato i poveri pensando di aiutarli soprattutto attra­verso un loro movimento dal basso facilitato da una comune cultura. Inol­tre lo stile di Gramsci quando scrive è ancora quello della classe superiore, il linguaggio di Don Milani è quello dei poveri.

Per questo ultimo fatto, essendo assurdo e forse offensivo il tradurre le sue parole in un diverso stile, penso che se si deve ricordare Don Milani con delle parole scritte l’unico modo sia quello di riportare senza intellet­tualismi le sue frasi2.


Ricchi e poveri di fronte al lavoro
Il tipo di società che ha davanti Don Milani quando scrive il suo libro Esperienze pastorali è quello della parrocchia di S. Donato, un piccolo pae­sino in collina, nella provincia di Firenze in cui «s’adatta per qualche anno il montanaro che fugge verso la città». Delle famiglie che lo com­pongono (in tutte meno di 300) la maggior parte è formata da poveri operai che vanno a lavorare a Firenze o a Prato e da contadini ugualmente poveri (ad esempio su tutte le famiglie di S. Donato solo il 28% ha l’acqua potabile in casa ed il 69% non possiede la casa) più un esigua percentuale di fattori e grandi proprietari che formano la classe dei ricchi. Ma più che gli squilibri economici sono drammatici quelli culturali in quanto «la quasi totalità degli anziani e 1’88,6% dei giovani è alla mercé di chi abbia fatto anche una sola classe oltre le elementari». Il povero quindi è sotto­posto alle angherie ed agli umori di ogni padrone di terre o di fabbrica, di ogni funzionario di ente o sindacato, di ogni politicante di partito ecc... ed i suoi problemi divengono facilmente drammi. Sono pertanto da leggere attentamente gli episodi successivi che riportiamo con le parole di Don Milani ricordando che in fondo S. Donato è un paesino che ha un reddito e tenore di vita molto più elevato di tante zone della Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglie per cui in Italia si trovano situazioni ben più patologiche. Ed è tanto vero questo che i tre episodi ci possono apparire quasi «natu­rali». Infatti di cosa si parla? Di un affittuario che imbroglia un poco un contadino, di un padrone di terre che non vuole grane con l’INPS, di un padrone di stabilimento tessile che sfrutta i ragazzini, non tollera lo sciopero, intrallazza con la giustizia e licenzia senza motivo… Sono tutte figure che ci sono familiari ed è terribile constatare che c’è bisogno di una serie di case che crollano, di inondazioni e frane per danni di miliardi, di interi paesi senza l’acqua, di grosse cifre di morti sempre per incuria e per ingiustizia sociale perché, per almeno qualche giorno, sui giornali come nelle discussioni tra amici, si usi un tono un po’ sostenuto.

Eppure i poveri e gli sfruttati del tipo di quelli descritti da Don Milani esistono sempre e sono a pochi passi da noi e dobbiamo il perpetuarsi di queste situazioni alla incapacità di indignazione e di critica attiva a tutti i livelli ed alla carenza di una cultura di base della classe dei poveri che non sa ancora battersi finendo, per adesso, con l’essere sempre ingiustamente dominata da una classe superiore.

L’ingegnere S… «padrone» di un podere senza strada né luce che rischia di rimanere solo, ha finalmente trovato un montanino che fa per lui. Per rompere le sue ultime riluttanze gli promette formalmente di portare la luce entro un mese e gli mostra un foglio che documenta l’affermazione. Adolfo ha fatto la V elementare ed è perciò sicuro di non farsi mettere in mezzo come il contadino che l’ha preceduto. Esaminato attenta­mente il foglio. È un modulo a stampa intestato alla Selt Valdarno e porta in fondo la firma del «padrone». Siamo dunque a cavallo e Adolfo firma tranquillamente il con­tratto. Ma della luce non si sente più parlare. Il foglio era solo uno di quei moduli per domanda di preventivo che senza spese e senza impegno la Selt Valdarno mette a dispo­sizione di chiunque li richieda. Il signorino ottenuto lo scopo aveva semplicemente buttato via il foglio.

La trebbiatrice è sull’aia di Adriano. Adriano ha 13 anni, s’è levato prima dell’alba e ha lavorato come un uomo fino a buio. A un tratto inciampa e cade sul cignone. Salva la vita per miracolo, ma non il braccio destro che gli resta orribilmente maciul­lato. Quando arrivano i carabinieri il fattore ha già fatto in tempo a parlare con i familiari e con tutti i presenti: «il ragazzo non ha l’età, se dite che era a lavorare lo rovinate». Oltre che cattivo il fattore è anche poco informato: l’età di Adriano è più che sufficiente per il riconoscimento di infortuni intorno alla macchina. L’INAIL sarebbe dunque costretta a dargli una pensione per tutta la vita, a rifondergli l’infortunio dan­dogli così modo di fruire dell’assunzione di lavoro obbligatoria (D.L. 3-10-1947, n. 1222). Ma quando l’ispettore dell’INAIL arriva dalla mamma dell’Adriano per la sua inchiesta la trova docile a firmare ogni cosa: «Scriviamo che era a baloccarsi vicino al trattore? Si, si. La faccia lei. Lei ci ha l’istruzione. Io non so fare neanche l’o col culo del bic­chiere. Sicché meglio che lei…». E ora Adriano è sistemato per tutta la vita. E' da quando aveva 6 anni che lavora. Ha già un viso e un mondo fin troppo a uomo. Il giorno dell’infortunio aveva già lavorato 15 ore. Ora si trova senza un braccio, senza lavoro, senza pensione, senza istruzione e in più con la beffa dell’INAIL che gli sven­tola sotto il naso la dichiarazione firmata dalla sua mamma: «Era a giocare».

Mauro entrò a lavorare a 12 anni… L’anno dopo il babbo restò disoccupato e il peso della famiglia passò sopra le spalle del ragazzo. Ma Mauro non fece smorfie da signo­rino: chiese due turni (al telaio) di 12 ore e li ottenne. A 13 anni dodici ore. Una settimana di notte ed una di giorno. E a cottimo. Il cottimo è un lento, diabolico sui­cidio. Specialmente per un ragazzo. Con la smania di riportare alla mamma una busta sempre più bella, ci si consuma e non si pensa alla salute. Senza contare la tentazione di cambiare la spola senza fermare. A rischio di lasciarci il dito. Eppoi non era neanche un cottimo decente… A furia di far 12 ore s’era ridotto da far spavento. Poi gli si ammalò il babbo. Fu in quei giorni che sentii dire che (a Prato) il Baffì assume. Ci andai di corsa. Raccomandare sul lavoro è un delitto, lo so, ma in quel caso non potetti resistere alla tentazione. Per lo meno credimi che non dissi che è buono o cosa pensi. Dissi solo che aveva il babbo malato, che lavorava da terzi senza libretto che così non poteva andare avanti, che col libretto tirerebbe gli assegni e le medicine e ogni altra cosa… M’interruppe: «Ě inutile Padre che s’affatichi a raccontarmi. La mia ammini­strazione non può interessarsi a nessun motivo umanitario. Lei mi capirà certo. Qui c’è una legge sola: il bene dell’Azienda. Che poi infine è il bene di tutti. Il ragazzo è in prova. Ma gli dica che non ammetto scioperi. Al primo sciopero vola». È come se m’avesse colpito allo stomaco: «Ma almeno — balbetto — mi dica se è sicuro di assumerlo. Se no non può lasciare i terzi. Ha la famiglia troppo gravosa per mettersi a questi rischi». « Padre io non posso assicurarle nulla. Io non posso assicurarle nulla. Io ne licenzio 5 o 6 la settimana e ne assumo altrettanti. Il lavoro a me non manca mai. Ma da me c’è un sistema speciale. A me piace l’ordine, la disciplina. Son sicuro che anche lei, Padre, la pensa come me».

Io penso invece all’art. 40 della Costituzione: il Diritto di sciopero. Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte. E poi non è una legge qualsiasi. È quella che il Cristo attendeva da noi da secoli perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo. Non gli riconoscerà ancora il potere sulle cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o non darlo quando gli pare. Ma no, Baffi, non ti meriti che queste cose io te le dica in faccia. Avresti troppa soddisfazione mettendomi per la strada Mauro e ridendoti di me e dei miei sogni. Ti meriti piuttosto che io dica a Mauro che t’inganni quanto può. Che finga pei 50 giorni di prova d’esser come tu lo vorresti. E poi scoccati quelli, non appena tu lo abbia assicurato gli dirò che lo sciopero è nulla. Gli dirò che ti macchi d’acido uno stacco di gabardine, che ti versi la rena negli oliatori che t’accenda una miccia nel magazzino. Perché a padroni a che fanno come te, ne ho visti tanti. Ma che se ne vantino così, senza pudore, dinanzi a un sacerdote di Cristo io non ne avevo visti mai. Te la farò pagare, te lo prometto in nome dei poveri che calpesti, in nome del mio sacerdozio che hai offeso, in nome della tua anima stessa che io vorrei salvare…

Rimuginavo velocemente tutti questi piani di guerra quando a un tratto sentii un grido da dentro: «No! Mauro no! Lui non si può ribellare. A casa siamo in 5 a aspet­tare la sua busta»… Son lì tutti e 5 a pregare per me. Perché io faccia loro questo bene. Il bene di mettere Mauro sotto i piedi del Baffi. Perché il Baffi possa ben calpe­stare la sua dignità di cristiano… Così fu che Mauro entrò a lavorare dal Baffi. Si usa dire che nelle fabbriche grandi le infrazioni alle leggi sociali non ci siano. Non è vero. Dal Baffi si lavora con contratto a termine. Ognuno firma per due mesi e rinnova alla scadenza per altri due e così via. Non si può ma al Baffi non gliene importa. Si dice poi che nelle fabbriche grandi sono tutti assicurati. Ma non è vero neanche questo. Dal Baffi so di moltissimi che non lo sono. E Mauro mio e Danilo li ha assicurati una setti­mana innanzi al licenziamento come un ultimo spregio. Dodici ore di notte e dodici di giorno sono comuni dal Baffi. Ma le ragazze per mesi interi han fatto 16 ore… Lui lo sa che ragazzi e donne fanno confondere poco. Con loro può fare ogni soperchieria sicuro che staranno zitti… È evidente che il Baffi è un pazzo. E un pazzo non fa la regola. Ma non è questo che voglio dire. Il tragico non è che ci sia un pazzo. Il tragico è che un pazzo possa impunemente fare e disfare nella vita degli umili. Che la società sia orga­nizzata in modo da proteggerlo… Un giorno mi è parsa troppo e sono andato da un ma­gistrato che vuol bene ai poveri e al Buon Dio. M’ha detto: «Ci penso io». Due giorni dopo, poco innanzi alla mezzanotte c’è piombato Luigino in piena scuola urlando: «L’hanno beccato! Solo nel mio reparto s’era in 7 di 14 e 15 anni. E poi quegli altri di 16 e 18. Ora lo fregano di certo». Ho respirato di sollievo. Stasera il concetto di legge ha acquistato qualche punto di fronte a questi poveri figlioli. «Vedete, cari, che basta sapersi valere delle leggi? La giustizia è una macchina a disposizione di tutti i cittadini. Basta saperla mettere in moto». S’è scritto insieme una letterina al nostro amico magistrato per felicitarsi con lui: «…l’ispezione è riuscita. Hanno trovato tutti i ragazzi a lavorare di notte. Facci sapere quanta multa s’è buscata». Sai che m’ha risposto il magistrato?: «…ho davanti a me il rapporto dell’Ispettorato: la segnalazione di irregolarità al lanificio Baffi era destituita d’ogni fondamento. In un’accurata ispe­zione non abbiamo potuto riscontrare la più piccola infrazione…»Andare a fondo? Infierire contro due poveri subalterni? Forse hanno accettato una bustarella, forse hanno ricevuto dall’alto l’ordine di non sdegnare troppo gli industriali perché non chiudano. Il potere politico è in mano a ricchi. Il potere della legge si infrange di fronte al potere economico. Le leve sono ferme in quelle mani. Ma non in quelle del Baffi solo. In un mondo intero che va rifatto è ridicolo prendersela con lui come se fosse un neo in un bel volto. Prendersela con una delle tante conseguenze senza aver colpito al cuore le cause e le premesse.

La storia di Mauro finisce male. Il Baffi lo licenzia senza motivo con un ultimo scambio di battute (Il Baffi gli ha detto solo: «Da domani non tornare» — «Non tornare? E a mangiare ‘n do vo?» — «Tu ti fai… e mangi») e come lui migliaia di altri Mauro sono alla mercé di industriali che parlano del « bene della azienda che è bene di tutti » e che finiscono con questo loro potere di licenziamento e riassunzione con il ridurre «un operaio feroce, forte intelligente, libero in un agnellino in gabbia».

Don Milani pertanto conclude il capitolo legato alla storia di Mauro chiamando in causa questo governo che «è stato sempre a sfavore dei po­veri» e che quando arriva il tempo delle elezioni utilizza ancora una volta lo stato di bassa preparazione di questa classe di sfruttati per por loro solo delle pseudo alternative3.

Elezioni politiche per il nostro comune. I partiti si alleano fra loro in due sole liste contrapposte: lista socialcomunista e lista antisocialcomunista. In ambedue le liste c’è partiti minori e maggiori. I minori offrono i loro servigi, ma con un preciso contratto di do ut des per le ripartizioni dei seggi. Quando il popolo s’avvia alle urne pieno di festosa consapevolezza della propria sovranità la torta è già stata spartita da un mese preciso… La stessa campagna elettorale si svolge in termini estremamente sbrigativi. Per i contadini di poggio si limita a questo: un propagandista comunista viene di casa in casa con un facsimile di scheda e dice: «Qui fa la croce il M… (il proprietario della fattoria). Che vorresti votare come lui? Di qua invece fa la croce il povero». L’affer­mazione è vera ma non educativa. Occorre infatti spiegare che il M… vota DC perché non ha altra scelta e perché nella lista sono compresi anche i suoi amici liberali. Un prete fa la sua controcampagna così: «Qui fa la croce il buon cristiano, di là son tutti senza Dio». L’affermazione è vera ma non educativa. Occorre spiegare che nella lista DC fanno bella mostra di sé anche i nomi di senza Dio famosi sia personalmente che per il partito che rappresentano (socialdemocratico, liberale!) e che un patto preeletto­rale assicura loro un numero di seggi smisuratamente sproporzionato ai suffragi. Occor­rerebbe fare anche un mucchio di precisazioni sulla stessa DC per spiegare al povero come sia una dolorosa coincidenza e non certo un’intenzione quel ritrovarsi della croce del prete dalla stessa parte della croce del M… Ma tutto è considerato troppo fine e alto per essere spiegato al povero. E così che paga è sempre l’istruzione del povero, la sua dignità di cittadino e la stima che può avere di noi.

Anche questa situazione ci è fin troppo familiare (se i problemi del po­vero di fronte al lavoro potevano forse ancora blandamente indignare un osservatore esterno queste situazioni elettorali non smuovono in genere nep­pure un pensiero) e all’amarezza di Don Milani nel verificare giorno per giorno l’angheria del potente si aggiunge la realistica constatazione che il povero finisce con il risentire di tutti quegli influssi del mondo borghese che dovrebbe raddrizzare. In questa direzione sono impietose («chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama») le descrizioni del montanino chiuso nel suo mondo di bugie e di diffidenza come del giovane operaio che considera il divertimento come il simbolo della sua età entrambi vittime dello stesso male: la vacuità intellettuale e culturale. E su entrambi questi due tipi di poveri grava l’industria dei consumi per cui le spese inutili, come nel caso del matrimonio, divengono patetiche e momentanee evasioni nel mondo dei ricchi.

Poveri figlioli (i montanini)! Cercano i segni della loro inferiorità nel nodo della cravatta e nel modo di posare i piedi o di pronunciare la doppia erre e non sanno che il marchio più profondo e più difficilmente sanabile è un altro. È il loro essere sospet­tosi, bugiardi, taciturni. È che insegnano esplicitamente ai bambini a tacere, a mentire, a chiudersi. Per loro la bugia non è un peccato accidentale, è un modo d’essere, anzi un’etica. Le cose di casa, le cose personali nessuno le deve sapere. L’uomo più sprege­vole è la spia, il timore più grande è d’essere ritenuto spia. Spia a chi? a tutti, a nes­suno, al prete. Spia di che? di nulla, di tutto, anche delle cose più insignificanti, quanto meno il prossimo sa meglio. È intessuta di bugie anche la vita del piano ma tra le bugie di montagna e quelle del piano c’è questa fondamentale differenza che quelle di montagna sono dette anche senza vantaggio né scopo per quest’unica cieca legge della segretezza. Ed è appunto tutto questo, questa chiusura, col suo bagaglio di conseguenze (l’uomo chiuso non insegna, ma neanche impara, l’uomo bugiardo non è creduto ma neanche crede alle parole altrui ecc.) che ha reso spregevoli i montanari ai cittadini e che ha fatto dell’inferiorità non solo un loro complesso ma anche una realtà oggettiva e per ora incurabile.

…Nel giovane (operaio) d’oggi c’è tutto uno stile che mi è estraneo: parla di sport e di cine senza domandarsi gli ultimi perché di interessi così insignificanti. Non vuol parlare di politica né di sindacato per non far fatica interiore. Parla della donna e della futura moglie col solo criterio sensuale. Vuol ignorare il dolore e la morte, consi­dera prodezza l’arrischiar per gioco la propria e l’altrui vita sui motori. Parla del denaro come del bene supremo. Attende da una vincita al Totocalcio la soluzione di ogni pro­blema. Considera il divertimento un diritto essenziale, una cosa sacra, il simbolo della sua età… Ebbene tutto questo mondo che pare diverso da quello degli analfabeti di mon­tagna è invece secondo me tutt’uno e soffre del medesimo male: vacuità intellettuale e culturale. Ciò che rende umiliante tutta la questione delle spese inutili è che essa nasce da mancanza di libertà. Ad ogni nuovo sposalizio bisogna fare tutto quello che è è stato fatto dai vicini negli sposalizi passati più qualcosa di più… Per esempio si spen­dono per i lussi della camera somme maggiori di quelle che occorrerebbero per una lavatrice elettrica e per portar corrente. E così capita di entrare in certe casucce ca­denti dove l’acqua c’è in casa solo quando piove e dove si sale alla camera a quattro mani su per una scala di legno rapidissima… per poi vedere a un tratto come per un capriccio di fate una camera nuziale splendente di specchi e legni preziosi… Una lavatrice elettrica costa 120.000 lire? Per le camere da letto nel nostro popolo nessuno ha speso meno di 150.000 lire. La moda è sulle 250.000. Qualcuno ne ha speso 400.000. Nessuno ha voluto le camere da 100.000 che pure esistono. Nessuno ha voluto il letto dei propri genitori morti. Nessuno nel popolo possiede una lavatrice elettrica. Poveri figlioli! Verrebbe voglia di prenderli tutti a scapaccioni, oppure di disinteressarsi di loro. Come si fa a condurre una battaglia in difesa del povero se ci passa davanti un corteo di 10 macchine col povero vestito da principe e poi si sente di un ban­chetto con 50 invitati (compreso il Principale e Signora, il Dottore e Signora)? Chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama.

Tutto quanto detto (constatazione dello squilibrio economico e cultu­rale tra poveri e ricchi e tendenze da parte della classe dei poveri ad essere influenzata come tipo di valori e comportamenti dalla classe superiore) porta alla esigenza di un impegno individuale per sollevare il povero dal suo stato di indigenza economica e sociale e per «mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese». Inoltre l’impegno delle persone che hanno ancora capacità di indignarsi e di amare il prossimo deve convergere verso l’istruzione perché solo attraverso una cultura non superficiale potrà essere risvegliata una coscienza critica che permetterà al povero di difendersi meglio dalle angherie dei potenti e dalle malizie della industria culturale per costruire le basi di un mondo migliore, diverso da quello costruito dalle classi borghesi.

Voler bene al povero, proporsi di metterlo al posto che gli spetta significa non solo crescergli i salari, ma soprattutto crescergli il senso della propria superiorità, mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese, fargli capire che soltanto facendo tutto il contrario dei borghesi potrà passar loro innanzi ed eliminarli dalla scena politica e sociale. Altri guardano a queste cose (le spese inutili del matrimonio) con occhio di benevole indulgenza: «Vuoi negare al povero, dopo una vita di sofferenza, anche questa giornata d’oblio sognate dalle ragazze fin dall’infanzia e poi ricullate nel ri­cordo fino alla vecchiaia?».

Non non glie la voglio né negare né proibire, poverine. Così come sono oggi. Ma è che così come sono oggi non le voglio. Cioè senza istruzione senza idee, senza ideali, senza il senso della loro dignità di operaie. Con in mano i giornaletti che produce la grande industria del giornaletto e del cine. La grande industria che dice di interpre­tare le esigenze della maggioranza e lo prova con la tiratura e la vendita. E invece queste esigenze borghesi le ha create lei con la malizia riuscendo ad avvelenare di quel dato stile anche la stampa che meno ci doveva cascare: quella comunista (e quella cattolica nella scia: c’è bisogno di dirlo?).

Non si può proibire a quelle poverine di spender male i soldi che han guada­gnato. Ma si può far scuola alle poverine ed ai poverini. Far scuola di idee più sane. Far loro capire che il vanto di un povero non è di scimmiottare per un giorno le parate antisociali degli oppressori per poi tornare il giorno dopo nella schiera anonima degli oppressi e brontolare sterilmente contro il mondo ingiusto.

Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola.


Ricchi e poveri di fronte alla scuola
La conclusione a cui perviene Don Milani dopo la sua realistica analisi di questa società classista è che i poveri per potersi difendere e «raddriz­zare il mondo» devono avere la massima padronanza della lingua ed una cultura generale di base. Ma che tipo di scuola trova il povero in Italia, in questa Italia che pur ha recentemente realizzato la scuola d’obbligo fino ai 14 anni come sperava Gramsci? La risposta di Don Milani è conte­nuta sia nel suo volume Esperienze pastorali che, e soprattutto, nel libro Lettera ad una professoressa scritto dagli allievi della sua scuola di Bar­biana.

La risposta, anche in questo caso, è amara: «La media vecchia era ­classista soprattutto per l’orario e per il calendario. La nuova non li ha mutati. Resta una scuola tagliata su misura dei ricchi. Di quelli che la cultura l’hanno in casa e vanno a scuola solo per mietere diplomi».

Fin dalla scuola d’obbligo c’è infatti una profonda differenza tra i figli dei poveri (identificati nel libro con il nome di Gianni) ed i figli dei ricchi (identificati con il nome di Pierino) perché la loro disuguaglianza di partenza (il diverso ambiente di studio, la possibilità di essere seguiti dai genitori, la possibilità di ripetizioni, la casa piena di libri, il tipo di lin­guaggio parlato in casa ecc.) viene accentuata dalla scuola che premia i Pierini scoraggiando ed umiliando i Gianni. Gli insegnanti della scuola d’obbligo forse si rendono conto di essere classisti, forse no. Per loro il problema maggiore è di essere «giusti» per cui si dà una serie di quattro a Gianni e lo si obbliga a ripetere e poi ad abbandonare la scuola d’ob­bligo prima di aver ricevuto quella cultura e padronanza della lingua che dovevano renderlo «uguale» al figlio di altri Pierini.

La «scuola per tutti», sancita dalla Costituzione, è quindi in realtà una scuola che si preoccupa soprattutto di mantenere le differenze dei Gianni dai Pierini e viene riportata la frase orgogliosa di un preside di Firenze che si gloriava di avere la «media meno unificata d’Italia». Per l’insegnante «bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ra­gazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo» ed è totale il disinteresse per questo ragazzino bocciato che viene rituffato nella classe dei poveri e riso­spinto verso un lavoro umile in cui non saprà difendersi perché non è abba­stanza istruito. Le statistiche nazionali parlano chiaro: la scuola d’obbligo perde 462.000 studenti l’anno e la sequenza di questa progressiva falcidia viene descritta traducendo le statistiche italiane in termini di una classe tipo elementare di 32 alunni4.

Entriamo il primo ottobre in una prima elementare. I ragazzi sono 32. A vederli sembrano uguali. In realtà ci sono già dentro 5 ripetenti… A giugno la maestra boccia 6 ragazzi… Alla fine delle elementari 11 ragazzi hanno già lasciato la scuola per colpa delle maestre. «La scuola è aperta a tutti. Tutti i cittadini hanno diritto a otto anni di scuola. Tutti i cittadini sono uguali». Ma quegli 11 no… In prima media i ra­gazzi (in una classe tipo) sono 22. Per la professoressa sono tutti visi nuovi. Degli 11 persi non sa nulla. Anzi è convinta che non manchi nessuno… La bocciatura colpi­sce i più vecchi. Quelli che hanno il lavoro a portata di mano… Bocciando i più vecchi i professori hanno colpito anche i più poveri… La più accanita (insegnante) protestava che mai aveva cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi: «Se un compito è da quattro io gli do quattro» . E non capiva poveretta che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto fare le parti uguali fra disuguali… Gli analfabeti che aveva a prima media sono ancora analfabeti. Se li è levati davanti agli occhi. E lo sa bene. Tant’è vero che a terza (media) boccia poco. Sette (bocciati) a prima, quattro a seconda, uno a terza…

…In terza media ci sono solo 11 dei 32 ragazzi che la maestra ha avuto in consegna in prima elementare. A questo punto occorrerebbe una rilevazione del mestiere del babbo dei licenziati dalle medie. Ma l’ISTAT non l’ha fatta. Come poteva pensare che la scuola d’obbligo facesse distinzioni di classe? In compenso ha studiato la profes­sione dei papà dei diplomati alle medie superiori da cui si vede che i figli di impren­ditori e liberi professionisti sono stati promossi 30 su 30, i figli di dirigenti e impie­gati sono 7,6 su 30, i figli di lavoratori in proprio 3,7 su 30 e i figli di lavoratori dipendenti 0,8 su 30.

L’insegnante si difende dicendo che a scuola non ha il tempo di sco­prire anche i Gianni e magari consiglia i genitori del ragazzo povero di mandare il figlio a ripetizione. Pertanto «ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a rimuo­vere le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola uguale per tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze».

Non è che il babbo di Gianni non sappia che esistono le ripetizioni. E' che avete creato un atmosfera per cui nessuno dice nulla. Sembrate galantuomini. Se un impie­gatuccio comunale, a casa sua, a caro prezzo, facesse certificati presto e bene e allo sportello li facesse lentamente e inservibili andrebbe dentro. Pensi poi se sussurrasse al pubblico: «Qui i certificati li avrà tardi e inservibili, Le consiglio d’andare da qualcuno che li fa in casa a pagamento Andrebbe dentro. Ma non va dentro un professore di cui so che disse a una mamma: «Non ce la fa. Lo mandi a ripeti­zione». Ha detto letteralmente così. Potrei portarlo in tribunale. In tribunale? Da un giudice che ha la moglie che fa ripetizioni? E poi sul Codice Penale questo reato, chissà perché, non è previsto. Siete tutti d’accordo. Ci volete schiacciare. Fatelo pure, ma almeno non fingete di essere onesti. Bella forza essere onesti su un codice scritto da voi e su misura vostra… Certe scuole dei preti sono più leali. Sono strumento della lotta di classe e non lo nascondono a nessuno. Dai barnabiti a Firenze la retta di un semiconvittore è di 40.000 al mese. Dagli scolopi 36.000. Mattina e sera al servi­zio di un padrone solo. Non a servire due padroni come voi.

Inesorabilmente quindi i Gianni (a parte la loro fortuna di non andare dagli scolopi e dai barnabiti) perdono terreno e si ritrovano sempre in una condizione di inferiorità linguistica e culturale di fronte ai Pierini che attraversano in fretta la scuola fatta apposta per loro arrivando alla univer­sità («fra gli studenti universitari i figli di papà sono 1,86,5%. I figli di lavoratori dipendenti il 13,5%. Fra i laureati: i figli di papà 91,9%, figli di lavoratori dipendenti 8,1%»). Una volta conseguita la laurea ai Pierini sono aperte tutte le vie del potere politico ed economico ed infatti, ad esempio, i deputati alle camere sono laureati per il 77% e questo indi­pendentemente che i partiti siano di destra o di sinistra («I figli di papà non arricciano il naso davanti ai partiti dei lavoratori. Purché si tratti di posti direttivi. Anzi è fine essere coi poveri. Cioè non proprio coi poveri, volevo dire a capo dei poveri»).

Viene così a formarsi, al di là delle differenziazioni ideologiche, un par­tito più potente e più forte di tutti gli altri: il Partito Italiani Laureati che fa barriera comune alle esigenze dei più poveri creando e legiferando perché la «scuola per tutti» diventi in realtà una scuola per soli Pierini, una scuola che è come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati».

Ora un sistema scolastico cosi classista, e che diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile, può essere modificato solo attra­verso una legislazione ed un impegno diverso da quello vigente e tre sono i suggerimenti dati dal gruppo di allievi di Don Milani: a) non bocciare; b) a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo; c) a gli svogliati dargli uno scopo. Data l’importanza di questo problema ripercor­riamo questi tre punti:

Il primo punto (non bocciare) significa che l’insegnante, tenendo pre­sente le disuguaglianze esistenti in partenza (per ambiente familiare) tra i Pierini ed i Gianni, deve fare tutto il possibile perché i Gianni siano pro­mossi prendendoli come punti di riferimento e trascurando piuttosto i Pie­rini che già nelle loro case ricevono tante attenzioni e ripetizioni. Sono i Gianni che vivono non aiutati dai genitori, e che trovano una casa senza libri ed in cui si parla un italiano scorretto, che devono essere aiutati ed incoraggiati ad ogni costo.

Se ognuno di voi (insegnanti) sapesse che ha da portare innanzi ad ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo uguale agli altri. Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su di lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola.

Come secondo punto viene indicata la necessità del tempo pieno e si ripropone il problema dei doposcuola che essendo discrezionali (la legge parla di effettuazione «previo accertamento delle possibilità locali») fini­scono con il non essere effettuati. Si ha, ad esempio, così che «Nel primo anno della nuova media il doposcuola statale ha funzionato in quindici comuni sui 51 della provincia di Firenze. Nel secondo anno in sei comuni, raggiungendo il 7,1% dei ragazzi. L’anno scorso in cinque comuni, 2,9% dei ragazzi. Di doposcuola comunali non ne esiste più ». Occorre invece il tempo pieno soprattutto per i Gianni e le obbiezioni degli insegnanti su questo punto per motivi di necessità di studio a casa o di stanchezza psicofisica dovuta all’insegnamento denotano ancora una volta il classismo imperante:

C’è capitato in mano un giornaletto sindacale per insegnanti: «No all’aggravio del­l’orario per cattedra! Ci sono state battaglie sindacali memorabili per fissare l’obbligo orario e sarebbe assurdo tornarci indietro». Ci ha messo in imbarazzo. A rigore non possiamo dire nulla. Tutti i lavoratori lottano per ridurre l’orario e hanno ragione. Ma il vostro orario è indecente. Un operaio lavora 2150 ore l’anno. I vostri colleghi impiegati statali 1630. Voi da un massimo di 738 (maestri) a un minimo di 468 (professori di matematica e lingua stra­niera). La scusa che avete da rivedere i compiti a casa e da studiare non vale. Anche i magistrati hanno da scrivere le sentenze. Voi poi i compiti potreste non darli. E se li date potreste correggerli coi ragazzi nel tempo che li fanno. In quanto a studiare, tutti hanno da studiare. E gli operai ne hanno bisogno più di voi. Eppure se vanno a una scuola serale non pretendono di essere pagati. In conclusione diciamo che il vostro orario di lavoro è un privilegio strano. Ve l’ha regalato il padrone fìn da prin­cipio per motivi suoi. Non è stato una vostra conquista sindacale. Nello stesso giorna­letto si legge che le vostre ore settimanali sono «…sufficienti a esaurire la capacità di dispendio psicofisico di una persona normale». Un operaio a una pressa sta otto ore al giorno teso nel terrore di lasciarci le braccia. Davanti a lui non lo direste. Ci sono poi migliaia di professori che non sono stanchi di far ripetizioni a chi li paga. Finché non vi sarete ripuliti di loro siete dall’altra parte. È difficile vedere in voi dei lavoratori con diritti sindacali.

Infine come ultimo punto occorre che l’insegnante prenda il suo com­pito come una missione (in questo senso deve essere rivalutato l’insegnante non sposato e tutto dedito come un sacerdote a questo compito essenziale per la trasformazione della società), l’insegnante che deve capire che «è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espres­sione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli».

La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. Gandhi l’ha fatto. E ha mescolato i suoi figlioli agli altri al prezzo di vederli crescere tanto diversi da lui. Ve la sentite? L’altra soluzione è il celibato. È una parola che non è di moda. Per i preti la Chiesa l’ha capita circa mille anni dopo la morte del Signore. Gandhi l’ha capita, proprio in vista della scuola a 35 anni (dopo 22 di matrimonio). Mao ha additato all’ammirazione dei compagni un operaio che s’è castrato (i «cinesi» italiani si vergognano di raccontarlo). A voi vi ci vorranno altri mille anni per adottare il celibato. Ma c’è una cosa che potete far subito: cominciate intanto a dirne bene e a valorizzare i celibi che avete. Su 411.000 insegnanti delle scuole d’obbligo 88.000 non son sposati. Di questi 88.000 (supponendo che gli insegnanti non siano né più né meno celibi degli altri cittadini) 53.000 non si sposeranno neanche in futuro. Perché non dire agli altri e a se stessi che non è una disgrazia ma una fortuna per essere disponibili alla scuola a pieno tempo?

Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei. Io lo conosco. Il priore me l’ha imposto fin da quanto avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho rispar­miato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato e con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali. Ma questo è il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello im­mediato da ricordare minuto per minuto d’intendere gli altri e farsi intendere. E non basta certo l’italiano, che nel mondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche al di là delle frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tutte vive. La lingua poi è formata dai vocaboli d’ogni materia. Per cui bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte di parlare.

Ma cosa si fa per creare questi insegnanti? Che tipo di insegnamento riceve chi ad esempio come il protagonista del libro Lettera ad una profes­soressa entra nelle magistrali volendo fare un maestro? La risposta data dai ragazzi di Barbiana è deludente ed ancora una volta mette in causa il mec­canismo del sistema scolastico italiano. I punti trattati sono sostanzialmente due: a) al maestro non viene dato un fine preciso e finiscono con il fare le magistrali persone che non pensano minimamente di fare il maestro; b) il tipo di programmi e di materie è lontano dalla realtà e dal tipo di missione alla quale i maestri dovrebbero essere preparati. Per quanto riguarda il primo punto sono da meditare queste osservazioni:

Nessuno dei miei compagni parlava di fare il maestro. Uno mi disse: «io voglio andare in banca. Alle tecniche c’è troppa matematica, al liceo troppo latino, così son venuto qui». L’ultimo dato su quelli come lui è nel censimento 1961. Avevano il di­ploma magistrale 675.975 cittadini. Leviamo 60.000 maestri pensionati, 201.000 che facevano scuola in quell’anno e 120.000 che desideravano farla (cioè i candidati al con­corso). Restano circa 330.000 cittadini che potrebbero insegnare e non insegnano (43%). Più d’uno dei miei compagni mi disse che voleva andare all’università e non sapeva in che ramo. Gli abilitati del ’63 furono 22.266. L’anno seguente ne ritroviamo iscritti all’università 13.370. Su 100 ragazzi che abilitate maestri, 60 non sono contenti.

Per quanto riguarda il secondo punto le osservazioni sono tutte impron­tate al fatto che l’insegnamento non è realistico ed i ragazzi di Barbiana passano in rassegna il latino («da voi la materia più importante è quella che non dovremo mai insegnare»), la matematica («per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari»), la filosofia («i filosofi studiati sul manuale diventan tutti odiosi, sono troppi e hanno detto troppe cose»), la pedagogia («così com’è la leverei. Ma non ne son sicuro. Forse se ne faceste di più si scoprirebbe che ha qualche cosa da dirci») e poi la religione, la storia, l’educazione civica ed una materia che non viene insegnata: l’arte dello scrivere:

C’è una materia che non avete nemmeno nel programma: arte dello scrivere. Basta vedere i giudizi che scrivete sui temi. Ne ho qui una piccola raccolta. Sono consta­tazioni, non strumenti di lavoro. «Infantile. Puerile. Dimostra immaturità. Insufficiente. Banale». Che gli serve al ragazzo di saperlo? Manderà a scuola il nonno, è più ma­turo…

Finché si arriva alla creatura toccata dagli dei: «Spontaneo. Le idee non ti man­cano. Lavoro con idee proprie che denotano una certa personalità». Ormai che ci siete metteteci anche «Beata la mamma che t’ha partorito». Consegnandomi un tema con un quattro lei mi disse: «Scrittori si nasce non si diventa». Ma intanto prende lo stipendio come insegnante di italiano… L’arte dello scrivere si insegna come ogni altra arte… Noi dunque si fa così: per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto sepa­rato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si uniscono i fo­glietti imparentati in grandi monti e sono capitoli. Ogni capitolo si divide in monti­cini e non in paragrafi. Ora si prova a dare un nome ad ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo spa­risce. Qualcuno diventa due. Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo mon­ticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutto uguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere ad alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevano dire. Si accet­tano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza. Dopo che s’è fatta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: «Questa lettera ha uno stile personalissimo».

Non mancano quindi, in questo ultimo messaggio di Don Milani sulla scuola, elementi e stimoli per una discussione, ma l’importante è oltre all’impegno individuale una ricerca di soluzioni operative perché le pro­poste e le idee presentate si avviino verso una concreta soluzione. Di libri «stimolanti» ce ne sono sempre stati ma è solo quando si passa alla fase operativa ed organizzativa che si rende un giusto omaggio a chi li ha scritti. Altrimenti è solo vuota «commemorazione»: una serie di parole che dopo poco sono già coperte di polvere5.


Ricchi e poveri di fronte alla guerra

Il problema delle divisioni di classe tra ricchi e poveri, tra sfruttati e sfruttatori, tra gente che dà ordini e gente che li subisce si allarga e si precisa intorno al tema della guerra e della obbedienza ai capi militari. Come abbiamo ricordato i due brani scritti da Don Milani (la lettera ai cappellani militari toscani e l’autodifesa) nascono da un episodio occasio­nale ma il suo approccio è tra i più generali ed è perfettamente inserito in quello schema base sottostante a tutto il suo pensiero. Il punto di par­tenza è ancora una volta la constatazione che la vera distinzione è tra diseredati e oppressi da un lato e oppressori e privilegiati dall’altro. La distinzione in «Patrie» per cui in ogni caso il soldato deve ubbidire agli ordini dei generali e chi non ubbidisce è «vile» è una distinzione molto meno valida tanto che se si scorrono gli ultimi 100 anni di storia italiana si può a mala pena trovare una guerra giusta: quella partigiana contro il fascismo.

Non discuterò qui l’idea di patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto…

L’obiezione di coscienza in questi (ultimi) 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza per disgrazia loro e del mondo (i soldati italiani) l’han cono­sciuta troppo… Scorriamo la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiet­tare… 1860, …, 1867-79, … 1868,… 1896,… 1935, …, Quando si battono bianchi e neri siete con i bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Statevi attenti perché quel giornale considera la vita di un bianco più di quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la con­temporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?…1915, …, 1922, … Nel 1936 cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova aggressione: avevano avuto la cartolina di precetto per andare «volontari» a aggre­dire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua patria, ribelle al suo legittimo governo e al suo popolo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo di un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti d’ogni libertà civile e religiosa. Ancora oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria e di tentare di salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei « volontari italiani questo non sarebbe successo… Poi dal 1939 in là fu tutta una frana…

Inoltre mentre il concetto di Patria richiama l’idea di una totalità bi­sogna ricordare il fatto lapalissiano che gli eserciti marciano agli ordini di una classe dominante per cui, soprattutto nelle guerre, è visibile la spaccatura tra gli interessi della classe dei ricchi e quelli della classe dei poveri. Le guerre sono quindi per la maggior parte guerre per la classe dominante da parte di un esercito che non ha mai rappresentato (salvo rare eccezioni) la Patria nella sua totalità. Oppure si possono avere guerre inutili (i nostri maestri non ci dissero che nel 1866 l’Austria ci aveva offerto il Veneto gratis. Cioè che quei morti erano «senza scopo»), guerre per dilatare i confini nazionali («io ai miei ragazzi insegno che le fron­tiere sono concetti superati») o guerre coloniali… tutte guerre comunque in cui il principio della «obbedienza ad ogni costo» è qualche cosa di assurdo.

I nostri maestri si dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante. In Italia fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913 ebbe diritto di voto il 23% ma solo la metà lo seppe e lo volle usare. Dal ’22 al ’45 il certificato elettorale non arrivò più a nessuno, ma arrivarono a tutti le cartoline per tre guerre spaventose. Oggi di diritto il suffragio è universale ma la Costituzione (arti­colo 3) ci avvertiva nel ’47 con sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell’arti­colo è lecito pensare (e io lo penso) che esso descrive una situazione non ancora su­perata. Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran massa del popolo italiano, non è mai stata al potere. Allora l’esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta. Del resto ne porta ancora il marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 lire al mese per i figli dei ricchi e con 4.500 lire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un attendente  figlio dei poveri. Allora l’esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza.

Non ha senso quindi parlare con tanta facilità di Patria e di obbedienza quando i generali si chiamano Hitler, Mussolini o Franco ed è per questo che occorre che ognuno si senta responsabile in solido per quello che è chiamato a fare. «L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni».

Diteci che cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza ad ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria di partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimi­che, la tortura, l’esecuzione di ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le deci­mazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore agli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine di un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?…

Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco?…

Il nostro arcivescovo Card. Florit ha scritto che «è praticamente impossibile all’in­dividuo saggio valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini da ricevere» (lettera al Clero 14-4-1965). Certo non voleva riferirsi all’ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che rice­vette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di minare anche gli ospedali (telegramma di Mussolini 28-3-1936). E neppure all’uso dei gas… A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.

C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è una virtù ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico re­sponsabile del tutto.

Occorre quindi una responsabilizzazione individuale e questo in qua­lunque modo si chiamino i superiori (siano essi padroni di fabbriche, inse­gnanti, ministri, generali o arcivescovi) e nel caso della guerra oggi, con il pericolo di una guerra atomica con conseguente distruzione totale, l’invito di Don Milani acquista una rilevanza e una importanza che mai ha avuto nei passati secoli di storia.


Preti di ricchi e preti di poveri 
A questo punto la rassegna dei brani più significativi scritti da Don Milani potrebbe terminare perché è già chiaro il senso del suo messag­gio: partendo dalle disuguaglianze sociali (che si esprimono in maniera più rilevante quando ricchi e poveri si trovano di fronte al lavoro, alla scuola ed alla guerra) perviene ad un invito alla responsabilizzazione individuale e all’impegno nell’insegnamento e nella riforma scolastica. Vogliamo però riportare anche alcuni brani che ribadiscono l’impegno del singolo tenendo presente che anche se Don Milani parla dei doveri del prete questo termine può essere immediatamente sostituito con quello di intellettuale usato da Gramsci senza che il messaggio perda di validità.

La critica ai preti (o agli intellettuali) è infatti tra le più generali. Constatate una società ancora suddivisa rigidamente in classi di ricchi e di poveri, di sfruttati e di sfruttatori, di analfabeti e di  super-istruiti quale è il compito dell’intellettuale o del prete e quale è invece il suo atteggia­mento più abituale?

Tralasciando i preti (o gli intellettuali) completamente asserviti alla classe agiata (i barnabiti o gli scolopi che creano scuole solo per i figli di ricchissimi come gli intellettuali a disposizione di certe industrie, gli arcivescovi che si compiacciono di benedire «stuoli di baionette come i fascisti di ogni tipo…») oppure quelli asserviti alla «intellettualità» il problema è quello di individuare gli atteggiamenti sbagliati di chi, non essendo legato direttamente alla classe dei ricchi, si avvicina in un certo modo ai poveri. In questa direzione gli atteggiamenti sbagliati che Don Mi­lani ricorda sono soprattutto tre: a) atteggiamento di tolleranza per cui si lascia il povero nelle sue superstizioni e in certi suoi riti e manifestazioni popolari in cui viene ridicolizzata l’ideologia pensando che «è sempre stato fatto così»; b) atteggiamento di sfiducia per cui si parla al povero con messaggi sbagliati, incompleti o astrusi pensando sempre che «tanto il po­vero certe cose non le capisce»; c) atteggiamento di falso amore per cui si cerca di dare tutta una serie di passeggere evasioni senza cercare di risve­gliare una coscienza critica in quanto si pensa che «è giusto che il povero si diverta come può».

Per quanto riguarda l’atteggiamento di tolleranza, Don Milani riporta una serie di superstizioni e di cerimonie religiose che hanno perso tutto il loro vigore primitivo e non è difficile pensare ad analoghe superstizioni e cerimonie «laiche» (come il festeggiare in un certo modo il primo maggio o certe feste dell’Unità) in cui tutta la carica ideologica viene dissolta in un ritualismo macchiettistico che è veramente penoso e che discosta le poche persone vive che vi partecipano dai valori che si volevano indicare e ribadire. Ora invece di delimitare al massimo queste forme degenerate, certi preti o certi intellettuali tollerano se non guardano con compiacenza queste manifestazioni popolari perché non bisogna inimicarsi la classe dei poveri che ha fatto sempre così.

Rientrare in santo. Questa è la denominazione popolare della Benedictio mulieris post partum (... ad templum sanctum tuum pro gratiarum actione laetam accedentem) ma non è solo una denominazione. Ě anche una convinzione radicata: la sposa che ha partorito non deve rimettere piede in chiesa perché è impura finché non è rientrata in santo. C’è poi una versione più caricata: la Madonna la si mise un tegolo in capo (per essere sempre sotto il proprio tetto anche nel tragitto al tempio).

Nella predica della Passione il Giovedì santo a un certo punto il predicatore deve invocare la croce e subito si apre la porta della sagrestia, appaiono due chierichetti e un sacerdote con la Croce e vengono sotto il pulpito. Alla fine della predica stessa scena col crocifisso. La cosa è di dubbio gusto se fatta una volta. Diventa una com­media quando viene fatta ogni anno, da anni, anzi da secoli. Direi di più: ha del peccato contro natura laddove la Parola, dono sacro di Dio per l’espressione del pen­siero, è ridotta a schema obbligato entro una rettorica così rigida da diventar rito.

La festa delle quarantore. E' camerlingo (presidente della società delle quarantore che organizza la festa) quest’anno un ricco esercente che… nella nostra classificazione appare tra gli atei di destra… E' qui il luogo di domandarsi anche se sia opportuno di fare notevoli spese in simili occasioni, in questo ambiente. Si tratta in media di 100.000 lire ogni volta. Versare olio prezioso sui piedi di Gesù non è fatto oggettiva­mente buono. E' opera meritoria che sarà ricordata in tutto il mondo se chi lo versa sa chi è Gesù. E' offesa ai poveri, se non lo sa… Ciò che il popolo e i ragazzi vedono sono le torture ideologiche… organizzate, favorite, tollerate solennemente dal prete proprio nel vivo del Massimo Sacramento.

Oltre alla tolleranza che porta alla identificazione della ideologia con una serie di feste o riti di dubbio gusto, c’è poi un possibile atteggiamento di sfiducia per cui si nasconde la verità o si utilizza un linguaggio cifrato sia nelle discussioni che attraverso la stampa. Vengono immediati i paralleli nel campo «laico» come la semplificazione che diventa menzogna di tanti oratori politici ed il ruolo mistificante di gran parte della stampa per cui perfino in molti volantini sindacali si finisce con l’usare un linguaggio stereotipato che denuncia una chiara sfiducia nella classe operaia.

Chiedo a un religioso di passaggio di tenere una conferenza alla Scuola popolare. Sceglie per tema la Storia della Compagnia di Gesù. Accetto il tema ben volentieri, ma raccomando la più scrupolosa onestà. Fin dalle prime battute siamo nei guai. Si parla di Lutero e lo si definisce così: «Un frate che aveva delle passioni che non sapeva contenere e allora si costruì una dottrina per poterle giustificare e sposò una monaca».

Interrompo il conferenziere, chiedo perdono ai giovani e prometto che nessun sacerdote all’infuori di me parlerà nella nostra scuola. Il conferenziere si ribella: «Quando si parla ai rudi non si può fare troppo sottili distinzioni se no non inten­dono». Due pesi e due misure dunque. Esistono delle notizie storiche che son vere in campagna e false in città!

Nell’Avvenire d’Italia del 10 giugno 1953 il titolo cubitale suona Maggioranza asso­luta al senato e prevalenza D.C. alla camera. Dato che la D.C. ebbe allora al senato il 40,7% dei voti, bisogna intendere che il soggetto (impossibile a  sottintendersi) della prima riga è il Centro e non la D.C., nominata nella seconda riga e introdotta con la significativa congiunzione «e» che la farebbe supporre soggetto dell’intera frase. Il contorcimento …è così raffinato che non mi pare di fare un giudizio temerario quando ci vedo una cosciente malizia. Ebbene questi lavoretti, che sono volgari quando li tro­viamo sui giornali degli atei, attaccano la nostra onorabilità quando li troviamo in un giornale che ostenta nella testata una impegnativa frase del Vangelo e che ha nell’at­tivo del suo bilancio economico le elemosine chieste dai sacerdoti e offerte durante il Sacrificio nella Giornata della Stampa Cattolica.

Tolleranza, sfiducia e infine atteggiamento di falso amore per cui si sceglie la strada più facile per incontrare i favori della classe dei poveri, la strada del cinema – televisore – campetto sportivo, strada che, perseguita con accanimento da preti e da dirigenti comunisti ha ridicolizzato il dibat­tito tra cattolici e marxisti in una contestazione tra circoli ricreativi la­sciando inalterato il potere dei poteri sia come forza contrattuale di lavoro che come preparazione culturale. Si oscilla pertanto da ricreazioni che sono cattive perché sterili, a ricreazioni che, oltre ad essere sterili, finiscono con il propagandare gli ideali di un mondo borghese che il povero dovrebbe contrastare.

C’è poi il cinema, la radio, la televisione. Quando nomino questi tre arnesi non mi riferisco alle loro possibilità teoriche… e neanche mi riferisco all’uso che teoricamente ne potrebbe fare l’utente, cioè una intelligente cernita nei programmi, ma all’uso che ne fa e ne può fare un povero a S. Donato. Il livello dei programmi è quello che si sa. L’uso che ne vien fatto è il peggiore possibile. La scelta del film per esempio è limitata dal fatto che c’è due sole sale (quella dei comunisti e quella dei demo­cristiani)… Si potrebbe credere che i due partiti che si contendono con tanto accani­mento gli spettatori nelle rispettive sale, facciano loro una selezione di film corrispondenti alle rispettive ideologie. La cosa potrebbe risultare da un lato positiva perché i film con tesi appartengono già a un genere superiore. Ma non avviene neanche questo. Le due sale propinano con superiore indifferenza quanto di più meschino offre il cinema americano. Guardano a scegliere film di sicuro successo commerciale e non si formaliz­zano sul mondo da cui provengono e che propagandano. Mondo che dovrebbe essere considerato eretico e perniciosissimo dai comunisti non meno che dai cattolici (capitalista, borghese, divorzista, areligioso, amorale, ecc...).

Essere quindi a favore della classe dei poveri, essere veramente vicini ai montanini, ai contadini, agli operai, presuppone un impegno ed una serie di atteggiamenti e comportamenti (soprattutto comportamenti) molto di­versi. Don Milani ci sottolinea due punti: a) amare i poveri significa innanzi tutto modificare la propria vita, sentirsi responsabili in concreto di quello che avviene, impegnarsi non solo al livello della lotta politica ma anche dal basso, al livello dei piccoli gruppi perché «non sono più i tempi in cui la gente credeva alla parola perché la sentiva infocata e rotta dal pianto. Nessuno si fida più di nulla che non sia vissuto prima che detto»; b) amare i poveri significa avere non solo capacità di indignarsi del loro scarso potere economico e politico, ma cercare di contrastare l’influenza degli ideali del mondo borghese utilizzando la stampa e i mezzi di comu­nicazione di massa per messaggi contestativi espressi in termini popolari e promuovendo una riforma radicale della struttura scolastica.

Terminiamo pertanto con due duri brani sulla responsabilità indivi­duale: uno sul farsi povero tra i poveri ed uno, ancora, sulla missione dell’insegnante.

È passato di qui un frate da cerca con un furgoncino a motore. Finora andava in bicicletta. «Niente meraviglia — sentenzia il dinamico fraticello — anche S. Francesco se vivesse oggi viaggerebbe così». Non è vero. San Francesco vivendo in un altro secolo avrebbe fatto quel che fece nel suo secolo, cioè avrebbe determinato il livello di «confort francescano» studiando quali siano le massime possibilità di rinuncia del­l’uomo d’un determinato secolo… L’errore del nostro fraticello è dunque quello d’aver misurato l’ascesa del necessario come se fosse un rapporto costante con l’ascesa, il molti­plicarsi del superfluo di cui godono i mondani… Tornando al nostro caso, i dati sulla motorizzazione fanno già intendere che il motore a S. Donato è ancora lontano dalla dignità di «necessario al prete». Un S. Francesco parroco non avrebbe detto «necessario» un oggetto che l’89,2% dei suoi popolani non possiede e di cui i suoi predecessori han fatto a meno per secoli senza eccessivo danno.

Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come biso­gna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola. Bisogna essere… Non si può spiegare in due parole come bisogna essere… Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schie­rati. Bisogna ardere dall’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto.

Il messaggio di Don Milani, nella sua violenza, è chiaro per tutti e, adesso che è morto, l’unico vero modo di commemorarlo sarebbe quello di una testimonianza concreta, individuale e di gruppo, a favore dei po­veri. Altrimenti alle generazioni future che giudicheranno la nostra società classista potremo solo lasciare queste parole, che sono ancora di Don Mi­lani: «Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro pru­denza ci potesse salvare. Vedete dunque che c’è mancata la piena avver­tenza e la deliberata volontà. Quando ci siamo svegliati era troppo tardi, i poveri erano già partiti senza di noi».

 

Note

1) Sul carattere della scuola di Barbiana ricordiamo in particolare l’articolo di Manlio Cancogni su La fiera letteraria, 24 agosto 1967 e la documentazione relativa. 
2) Le citazioni in questo articolo sono prese dai due libri Esperienze pastorali, Li­breria Editrice Fiorentina, Firenze 1958 e L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967. Inoltre sono state riportate ampie frasi dal libro: Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967. Molti giornali in occasione della sua morte hanno dedicato a Don Milani ampi commenti ed è melanconico doverli citare. Sarebbe stato bellissimo infatti che i sacer­doti della Diocesi di Firenze avessero scritto un articolo di questo tipo: «Caro Don Mi­lani, molti di noi con a capo l’Arcivescovo, ti abbiamo avversato in vita. Non pensare però che fosse cattiveria. Non ti avevamo capito. Eravamo così immersi nei nostri problemi quotidiani che le tue parole ed il tuo esempio ci sembravano marginali, estranei a quello che facevamo ogni giorno. Adesso però di fronte alla tua morte serena abbiamo riflettuto e abbiamo compreso il tuo messaggio. Abbiamo capito che tu sei il prete normale e noi i marginali e pertanto da domani, anzi da oggi, vogliamo rimediare di fronte ai poveri che abbiamo trascurato. Mentre scriviamo un gruppo di noi sta organizzando delle scuole vere per i poveri, altri stanno regalando i loro beni per vivere meglio la povertà anche come esempio… tutti vogliamo ridurre al massimo i nostri impegni d’ufficio per andare a parlare con la gente, per entrare nelle case dei più oppressi, per essere sacerdoti di Cristo…» e poi le firme di tutti i sacerdoti in ordine alfabetico; il monsignore accanto al prete appena ordinato, il pretino intel­lettuale che conosce anche Levy Strauss ed il vecchio prete incanutito nello sperduto paese montano… Ma un articolo così sarebbe stato un miracolo e non è accaduto. Così sono stati scritti nei quotidiani cattolici articoli in cui il «non contraddire l’Arci­vescovo» (così terribilmente simile a «il non contraddire il capo ufficio») scorreva parallelo a il cercare di dire il bene meno problematico del prete che aveva scritto che «l’obbedienza non è più una virtù». È quasi cattivo citare questi articoli e vedere le diverse strategie utilizzate. L’osserva­tore toscano ha risolto il problema con una bella citazione di don Milani detta in punto di morte (citazione tollerabile quasi da tutti) L’avvenire d’Italia ha utilizzato citazioni di Don Mazzolari e ancora citazioni che giustificavano l’ortodossia di Don Mi­lani (ortodossia che non era in discussione) senza discutere di altre ortodossie. Negli altri quotidiani cattolici poi tutte frasi di repertorio e solo sulla Settimana del Clero, Sandro Lagomarsini ha detto delle frasi che suonano sentite e personali. Da notare poi in genere nei quotidiani l’uso di parole tipo «linguaggio duro e scomodo» senza mai dire per chi. La Nazione ha invece usato l’aggettivo «amaro». Don Milani il «prete amaro»… Tra le riviste Padre Balducci su Testimonianze ha fatto dei paragoni alati lasciando intravedere una difficoltà di intesa di fondo. Note di Cultura è sta l’unica rivista a parlare della difficoltà di Don Milani con una certa Chiesa (ma non ho ancora visto i commenti de Il gallo, Il tetto, e Testimonianze ha promesso un numero unico) e infine L’Astrolabio ha scritto tramite Pietro A. Butti delle parole che sem­brano sincere. 
3) Sul problema del governo Luca Pavolini (Rinascita, 23 giugno 1967) scrive come Don Milani abbia una impostazione elementare, «contadina» per cui «la critica al Parlamento, non dovrebbe mai restar critica generica, ma dovrebbe distinguere sem­pre tra maggioranze e minoranze, tra chi ha proposto determinate leggi e chi le ha contrastate». È una osservazione giusta ma Don Milani aveva rinunciato a fare il Gramsci e oltre alle parole dei poveri aveva preso anche il loro punto di vista. E per un povero oggi in Italia non credo esista una netta differenziazione tra i partiti essen­doci molto più probabilmente l’immagine di un grosso e abbastanza uniforme Partito Laureati Italiani. 
4) Questi dati sono stati riconfermati da più parti. Innanzi tutto un’indagine del CENSIS (Centro Studi di investimento sociale) di cui alcuni dati sono riportati ne L’Espresso, 25 giugno 1967; poi pure recente il documento «L’adempimento dell’ob­bligo scolastico» (Napoli, maggio 1967) promosso dalla rivista Scuola e Città; infine il convegno «Università, Ricerca e Mezzogiorno» riportano in parte su Politica Sco­lastica (luglio 1967). Sul problema del pieno tempo è poi interessante il dibattito su Scuola e Didattica iniziato negli ultimi mesi e si può anche ricordare, sotto l’aspetto di documenta­zione, l’articolo di Aldo Visalberghi (La Stampa, 2 luglio 1967) che ricorda come nella Repubblica russa i ripetenti al livello di scuola obbligatoria erano nel 1952-53 il 14,5%. Ciò suscitò proteste e indignazione, indusse le autorità scolastiche a una azione con­certata per cui nel 1963-64 tale percentuale era ridotta al 4,3 (un decimo rispetto al­l’Italia!). 
5) Sul libro della scuola di Barbiana sia le riviste specializzate nei problemi della scuola che i quotidiani e le riviste di cultura generale o di partito hanno dedicato molto spazio. La maggioranza si è limitata (come abbiamo fatto in questo articolo) a riportare i punti più vivi di questo libro. Le critiche sono state su alcune generaliz­zazioni ritenute troppo indiscriminate. Ad esempio l’Unità e Rinascita come Testimo­nianze o ad esempio, Città e Scuola hanno trovato ingiustificato l’attacco agli insegnanti sia perché ci sono le dovute eccezioni sia perché, come ha scritto Adriano Gozzini su Testimonianze « prendersela con le professoresse per come funziona la scuola mi sembra lo stesso sbaglio che fanno gli operai quando si scagliano contro i poliziotti che si oppongono alle loro proteste. In entrambi i casi si tratta di povera gente con compiti esecutivi, che difende l’ordine costituito, nel caso delle professoresse le direttive e i pro­grammi ministeriali». La risposta dei ragazzi di Barbiana (riportata sempre su Testimonianze N. 95): «Nella sua lettera ci fa notare che le professoresse sono le vittime più duramente colpite. Per forza di cose, quando si parla di vittime si parla di oppressore. E l’oppres­sore a quale stadio della piramide si trova? E forse il provveditore? Poverino, lui a sua volta è vittima del ministro. E il ministro? Se la sente lei di dire che l’oppressore è il ministro?» I ragazzi di Barbiana riportano pertanto la frase di Don Milani «che ognuno si senta responsabile del tutto». Altre critiche sono state fatte sulla proposta di fare una scuola di Servizio Sociale per preparare chi desidera mirare alto (Aldo Capitini, Azione non violenta giugno-lu­glio 1967), sul ridimensionamento delle materie scientifiche (Adriano Gozzini, Testi­monianze, N. 95) e su tutta una serie di elementi che presi isolatamente possono destare perplessità (il celibato, il dopo scuola affidato ai sindacati, le battute sulla psicologia ecc...). Tutti però (a parte i soliti folli de La notte) accettano la diagnosi di fondo e la sostanza dei suggerimenti. Volendo essere pessimisti è evidente che non è facile pensare alla attuazione di una scuola in cui i valori siano quelli di una società più profonda e meditativa di quella attuale. Una scuola che prepari dei giovani critici e responsabili molto di più della stragrande maggioranza delle generazioni attuali. È evidente però che (almeno dalle accoglienze tributate a questo libro) vi è adesso un ritardo tra forze potenziali e tipo di scuola vigente: ritardo che può essere colmato con l’organizzazione di doposcuola efficienti, con la preparazione-conversione degli insegnanti attuali, con la preparazione-conversione degli insegnanti che insegnano come divenire insegnanti, il tutto alla luce di una revisione approfondita dei programmi per scuola d’obbligo e per scuola magistrale e magistero… Non è un programma molto semplice ma i margini per una azione possibile ci sono.


Vedi anche La Stampa | Video Un uomo libero. L'ultima lezione di don Lorenzo Milani https://www.lastampa.it/cultura/2023/05/26/video/un_uomo_libero_lultima_lezione_di_don_lorenzo_milani-12825700/