di Piero Stefani
Si può identificare un momento in cui è avvenuta la rottura tra le prime comunità cristiane e l’ebraismo e quali le cause?
La domanda sembra muoversi all’interno dell’orizzonte in genere definito con l’espressione inglese «the parting of the ways» (il cui principale testo di riferimento è costituito dall’omonimo libro di J. D. G. Dunn, 1991). Questa prospettiva presuppone l’esistenza di una divisione avvenuta a partire da un comune, per quanto variegato, contesto giudaico.
Studi più recenti hanno, però, messo in discussione anche questa ipotesi. In particolare Daniel Boyarin ha proposto (cfr. Morire per Dio. Il martirio e la formazione di Cristianesimo e Giudaismo, Il melangolo, Genova 2008, originale 1999) un modello diverso che concepisce il giudaismo e il cristianesimo dei primi tre secoli come punti di una linea continua che va da un estremo costituito da Marcione (contraddistinto dalla convinzione dell’assoluta estraneità tra il messaggio di salvezza annunciato da Gesù Cristo e le Scritture d’Israele) a quello, opposto formato da quei giudei che non provavano alcun interesse per Gesù e per il suo messaggio. Da questo amalgama, attraverso un processo piuttosto lungo, sarebbe emerso sia il cristianesimo sia il giudaismo rabbinico nel senso moderno del termine. Il cristianesimo non sarebbe quindi nato in seguito a una «separazione» avvenuta in un momento ben identificabile; al contrario, esso avrebbe avuto origine da una serie di scelte operate da gruppi differenti dai contorni spesso sfumati. Il processo nel suo insieme sarebbe paragonabile a quelli che caratterizzano i vari dialetti di una lingua comune. Questa fase si sarebbe conclusa solo nel IV secolo, quando gli interventi ideologici operati, a proprio vantaggio, dal potere imperiale avrebbero definitivamente sancito la nascita della nuova religione cristiana.
Tutto ciò, sempre secondo Boyarin, non significa che, in precedenza, fosse precluso discernere gruppi dichiaratamente cristiani da altri apertamente giudaici; tuttavia, in termini di linguaggio culturale, non esisteva ancora un insieme preciso di tratti che distinguesse, in modo inequivocabile, il giudeo dal cristiano.
Nel complesso la tesi di Boyarin appare, almeno in parte, estremizzata, tuttavia essa risulta convincente nell’indicare la mancanza di precoci tagli netti tra i due ambiti. Una delle ragioni di questa assenza si radica nel riferimento da parte sia di ebrei sia di cristiani alle stesse Scritture. Peraltro si è in genere propensi a ritenere che la comparsa di un canone marcionita (formato solo da alcuni scritti neotestamentari) abbia favorito, per reazione, la definizione di quello, proposto dalla Grande Chiesa, in cui gli scritti neotestamentari sono affiancati a quelli contenuti nella Bibbia ebraica. La formazione del canone cristiano fu, a sua volta, un processo conclusoli, nelle sue grandi linee, solo III secolo. Prima di allora le «memorie apostoliche» non erano integrate alla Scritture d’Israele. Secondo un approccio caro alla storia delle religioni, la definizione di un insieme di libri sacri riconosciuti rappresenta una specie sigillo ai processi, più o meno lunghi, che hanno condotto al sorgere di una nuova religione.
Un fattore che ha contribuito al sorgere del cristianesimo è, come è evidente, la crescente comparsa all’interno delle comunità di credenti in Gesù Cristo di persone di origine non ebraica. La presenza di gentili nelle varie Chiese è data originaria dell’annuncio evangelico (cfr. per es. Gal 1,11-14; At 11, 19-21); tuttavia le cose mutarono quando alle iniziali comunità ebraiche (Gerusalemme), o miste (Antiochia) ne subentrarono altre prevalentemente o totalmente gentiliche. Allora divenne sempre più evidente la tendenza a essere titolari, in proprio, anche delle Scritture d’Israele. Il fenomeno apparve già nel II secolo. Lo esemplifica, in maniera assai netta, questo passo tratto dal Dialogo con Trifone di Giustino in cui per indicare il fondamento della verità evangelica si dichiara: «non si tratta di discorsi preparati da me o abbelliti con artifici umani, ma di cose cantate da Davide, annunciate da Isaia, proclamate da Zaccaria, scritte da Mosè. Le riconosci, Trifone [che nel dialogo rappresenta l’ebreo]? Si trovano nei vostri libri, o meglio non nei vostri ma nostri. Noi infatti diamo loro credito, voi invece li leggete ma non ne capite lo spirito»[1].
Già nel II secolo, quindi, è in stato di avanzata incubazione la teologia della sostituzione, in base alla quale la Chiesa si autoproclama vero e nuovo Israele. Si tratta di una visione a tal punto connessa al cristianesimo – inteso come «sistema religioso» – da chiedersi se esso possa sussistere senza conservare in se stesso alcune tracce di quella teologia. Risulta infatti chiaro che il dichiarato attuale ripudio della teologia della sostituzione sia ben lungi dal trarre tutte le conseguenze comportate da questo rifiuto nelle vita della Chiesa.
Nota
[1] S. Giustino, Dialogo con Trifone, 29,2, ed. it. A cura di G. Visonà, Milano, Paoline 1988, p. 147.