di Carlo Bolpin
Una prima valutazione
Si può dare una prima generale valutazione di questa fase iniziale del Sinodo in Italia? È troppo sbrigativo costatarne il mancato decollo? Anche se molto provvisorio questo giudizio serve per capire come proseguire.
La prima osservazione è la mancanza di entusiasmo, che ricordo molto forte anche tra noi giovani (allora) nel periodo del Concilio e di Giovanni XXIII. Prevale ora piuttosto la sfiducia anche in chi partecipa ai gruppi sinodali e il disinteresse generale. Utile è confrontarci sui motivi.
Le mie sono impressioni dal mio piccolo osservatorio e, ovviamente, non sono frutto di ricerche sul campo. Pongo queste ipotesi per essere smentito da chi vive esperienze diverse.
La Chiesa italiana vive la condizione della società vecchia, rassegnata, litigiosa, senza visione e attese per il futuro, anzi chiusa nelle tante paure per il presente. L’alto analfabetismo di ritorno e la scarsa conoscenza biblica e religiosa provocano un forte smarrimento sia verso il vecchio sia verso il nuovo. La proposta del Sinodo non ha rimosso la sfiducia nell’essere ascoltati e nel cambiamento, una sfiducia nelle “istituzioni” confermata dalle modalità e dalle procedure dall’alto in atto anche per il Sinodo.
La metodologia è, infatti, segnata da clericalismo e autoreferenzialità, caratteristiche presenti anche tra i laici. Se manca il prete non ci si muove nelle parrocchie e in Diocesi, oppure si tentano gruppi gestiti da qualche volonteroso, in modi poco coinvolgenti e senza riscontri con i percorsi ufficiali, gerarchici.
Appare chiaro il motivo di fondo: come ci si può “ascoltare” per “camminare assieme” se si parlano linguaggi tanto diversi da essere incomprensibili tra loro? Continuo a leggere e sentire molte analisi che individuano nella frattura tra “vertice” e “base” il problema da superare nella Chiesa, mentre la frattura è trasversale: molte sono le cause ma si deve prendere consapevolezza che esiste incomunicabilità tra opposte visioni e pratiche di essere cristiana/o anche tra praticanti e tanto più con chi è ai margini o è stato posto fuori delle realtà ecclesiali. La stessa liturgia, momento essenziale per creare la comunità cristiana, non più sentita come necessaria, è anzi motivo di rifiuto e di divisione, vissuta come un rito ripetitivo di formule incomprensibili, inutili per la propria vita. Quante persone dopo il Covid sono tornate ad “ascoltare” la messa?
Nostalgia del passato che è bene finisca presto
Siamo l’ultima generazione dell’adesione alla fede per tradizione. Da decenni si parla e si studia il processo di “scisma silenzioso” dalla Chiesa, individuale e progressivo, in particolare delle donne e dei giovani. Eppure sembra una novità e con stupore e rammarico ci si chiede come far “tornare” queste e questi “lontani”, come tornare a essere “rilevanti”.
Noto in tanti interventi la nostalgia dell’epoca in cui cristianesimo era radicato nel popolo, “naturalmente” cristiano, e impregnava la società, almeno a livello culturale. Si rimpiange il tempo in cui la maggior parte del popolo italiano aveva dentro di sé i principi e i sentimenti del cristianesimo, che dunque trovava l’ambiente favorevole, dalla nascita alla morte.
Ma non è proprio questa cristianità a essere la causa dell’abbandono? Si accusa la secolarizzazione, l’individualismo “fai da te”, ma quello che non ha senso evangelico è proprio quel modello.
Si rimane nello schema che ormai non regge più: i cristiani definiti in base all’appartenenza alla Chiesa cattolica romana come ”società perfetta”, costituita dall’autorità patriarcale piramidale – secondo modelli pagani ─ e da un sistema uniforme di dottrina, culto, cerimonie, immutabile e sacro; in cui il diritto canonico vale più del Vangelo. Anche se è comprensibile, ora prevale la paura dell’irrilevanza, dell’“inutilità” della Chiesa e del sacerdote, paura che crolli tutto se si mette in discussione questo “sistema”, che andrebbe aggiornato, reso un po’ più flessibile e partecipato, ammodernato. L’identità dei cristiani era data in quanto buoni parrocchiani sotto l’autorità del parroco: un’organizzazione funzionale al controllo del territorio attraverso la capillare presenza di presbiteri legati alle parrocchie, in cui gli uomini hanno ruoli pubblici e le donne stanno nel privato. Questo modello organizzativo non regge più.
Se si continua a considerare come riformare la chiesa mantenendo questi schemi, rimarranno quei nodi denunciati da Francesco: clericalismo e autoreferenzialità, conseguenti alla sacralizzazione e alla gerarchizzazione del sacerdozio in un’unica figura che ha il potere di consacrare in modo esclusivo e assoluto, senza connessione con la comunità.
Su questo “potere” era fondata l’unità e la cattolicità della Chiesa, intese come “mondo” monolitico, identitario e separato, “totale”. Ogni forma di dissenso, di divergenza, di pluralità era scomunicata, messo ai margini di quel mondo, con conseguenze anche sociali, lavorative... provvidenzialmente ora scomparse, per la forza della realtà esterna in cambiamento.
Ricordo che già prima del Concilio erano diffuse, nonostante le proibizioni e le emarginazioni dei teologi e studiosi, le analisi sulla fine dell’età costantiniana, dei modelli gregoriani e tridentini. Nemmeno ora si è preso atto di questo processo fino in fondo. Il Concilio stesso non lo aveva fatto. Il card Martini ha detto che la Chiesa è indietro di almeno 200 anni. Il Sinodo è l’occasione favorevole per il processo di questa consapevolezza e del definitivo superamento di quei modelli.
Proposte ormai in ritardo?
Il pericolo è che si cambi per non cambiare, che all’intransigenza dottrinale e disciplinare si sostituisca una tolleranza accomodante e paternalistica, una pigrizia dell’apparato di potere che ignora le differenze lasciandole fare, e che assume una comunicazione facile e modernizzante, mantenendo e costruendo strutture di presenza nella società negli spazi dove lo Stato sarà sempre più difficili arrivi.
Forse queste forme di Chiesa e di cristianesimo conviveranno accanto ai vecchi modelli e a modalità “fai da te”, che si riconoscono nella Chiesa a geometria variabile, per appartenenze a singoli momenti e anche senza rapporto con una comunità.
Una proposta diffusa è la creazione di comunità aggregate per omogeneità di modo d’intendere e di fare esperienza cristiana, con particolare riferimento alla famiglia come nucleo. Comunità che si trovano nelle case. Se penso alla nostra società, vedo che l’idea è in forte ritardo. Molte esperienze di questo tipo sono state realizzate nel passato e alcune continuano anche ora, ma la famiglia non è più quel nucleo sociale “naturale” di un tempo, e la società è troppo frammentata. Le persone, anche cristiane, hanno una pluralità d’identità. Forse però, a certe condizioni, è una strada possibile, anche se questa proposta non supera il problema posto all’inizio dell’esistenza di tanti “cristianesimi” opposti e incomunicabili. Si rischiano, infatti, logiche settarie: ma per molte e molti questa è stata ed è l’unica strada possibile per la propria ricerca di fede.
Non serve richiamare all’unità nella preghiera, nell’unico Spirito e nell’eucarestia, se si resta sordi e chiusi alle diversità.
La sinodalità non solo come metodo
La “scoperta” di Francesco è la sinodalità come modo d’essere della Chiesa, comunità plurale, povera, senza poteri, con relazioni di amicizia, tra liberi e non servi, capace di evitare sia l’autoritarismo omologante che il relativistico “fai da te”. Comunità di comunità, non “governate” da poteri gerarchici, ma dal metodo sinodale, messe in relazione dal “camminare assieme”.
Una sinodalità che ponga la chiesa non al centro ma in funzione dell’umanità in cui Dio dimora.
Come felicemente indicato da papa Francesco: un Chiesa in uscita che deve lasciare che Gesù esca dalle mura in cui noi lo imprigioniamo, rendendolo irrilevante per la vita, incomprensibile.
Lo stesso Francesco pone questa esigenza in una dimensione universale, non più eurocentrica. Boff scrive della necessità di superare la ricolonizzazione latino-romana delle Chiese nei diversi continenti. La questione è che il cristianesimo si è sviluppato nell’identità con l’occidente: il problema non va semplificato, impone un lavoro di riflessione forte, che non perda la grande ricchezza della Tradizione sempre stata pluralistica, evitando i sincretismi per “adattare” il cristianesimo alle diverse culture dei popoli.
La ricerca e il dibattito pubblico, aperto, chiaro e libero, è quanto mai necessario ora per un confronto tra diversi modi di essere Chiesa.
Non si tratta di prendere a prestito le forme della democrazia, ma di sperimentare nuove strutture di ascolto, di comunione e condivisione adatte alla complessità attuale sempre più forte.
La “forma” della Chiesa non ha bisogno di prendere a modello gli ordinamenti del mondo, della cultura del momento storico: questo è avvenuto dopo le prime comunità, assumendo modelli giuridici e concettuali del tempo, che hanno prevalso sul Vangelo.
Una “nuova” proposta: Gesù Cristo
Il riferimento unico che abbiamo è la pratica di Gesù Cristo a cui la Chiesa deve conformarsi. La vita e l’insegnamento di Gesù sono il paradigma teologico ed ecclesiale. Questa necessaria “rifondazione cristologica” significa innanzitutto imparare le relazioni nella Chiesa e con il mondo dallo stile di Gesù e delle prime comunità cristiane, un popolo in cammino itinerante, "quelli della via", quelli e quelle che hanno come via Gesù.
Significativo è che nel Documento preparatorio Sinodo 2023. Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione si affermi che «Gesù rivolge una speciale attenzione ai “separati” da Dio e agli “abbandonati” dalla comunità (i peccatori e i poveri, nel linguaggio evangelico). L’interlocutore di Gesù è “il popolo” della vita comune, il “chiunque” della condizione umana. In un modo che sorprende e talora scandalizza i testimoni, Gesù accetta come interlocutori tutti coloro che emergono dalla folla: ascolta le appassionate rimostranze della donna cananea (cfr. Mt 15,21-28), che non può accettare di essere esclusa dalla benedizione che Egli porta; si concede al dialogo con la Samaritana (cfr. Gv 4,1-42), nonostante la sua condizione di donna socialmente e religiosamente compromessa; sollecita l’atto di fede libero e riconoscente del cieco nato (cfr. Gv 9), che la religione ufficiale aveva liquidato come estraneo al perimetro della grazia». Esemplare è la relazione di Gesù con le donne, un modo alternativo a quello che la Chiesa ha assunto. Riprendere questo stile di Gesù è decisivo: non si tratta solo di dare spazi e ruoli alle donne.
Nel citato documento si afferma: «Emblematico a proposito è l’episodio del centurione Cornelio (cfr. At 10), antecedente di quel “concilio” di Gerusalemme (cfr. At 15) che costituisce un riferimento cruciale di una Chiesa sinodale», perché si ha una «duplice dinamica di conversione: Pietro e Cornelio (At 10)». I “lontani” non sono oggetto di evangelizzazione ma soggetti da cui imparare la continua conversione.
È quindi la qualità delle relazioni d’amicizia interne alle comunità cristiane (delle diverse confessioni e tradizioni) e di queste con l’umanità, che qualifica la capacità di vivere e annunciare il Vangelo come Chiesa spazio aperto di amore nel mondo, offerto a tutta l’umanità, anche se questa non corrisponde e rifiuta.
I cristiani sono riconosciuti solo dai frutti dell’amore anche del nemico, del perdono e della riconciliazione, dal saper “rimanere nell’amore” (Gv 14,26), segni del Regno già realizzato in Cristo. La Chiesa annuncia ma non è il Regno, non è necessaria alla salvezza del mondo, che è già realizzata in Cristo, “perché la resurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta della storia” (EG 278).
Occorre quindi ripensare il ruolo delle religioni e delle diverse manifestazioni dell’umano nella ricerca del bene e del vero nella storia della Salvezza. Sinodalità significa anche questo: mettersi in ascolto di tutte queste manifestazioni dell’amore di Dio che è più grande di ogni recinto in cui i cristiani tendono a rinchiuderlo.
La proposta molto concreta è che nelle parrocchie e nelle associazioni si rifletta per un anno sullo “stile” di Gesù, lo si verifichi con la realtà e si raccolgano le “buone pratiche”, esperienze significative.
Non c’è riforma senza conversione
Siamo noi, le comunità cristiane, a essere terra di missione: non c’è riforma senza conversione.
La crisi è di fede, scrive Enzo Bianchi: «La vera urgenza è ridestare la fede “nuda e appesa alla croce”».
Se non si è testimoni nel mondo che «Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte» si è irrilevanti, sale insipido, lievito ammuffito.
Uno degli argomenti delle riflessioni sinodali riguarda i “giovani”: come fare per “riportarli”nelle chiese. Ma il mondo e, in particolare, le giovani generazioni chiedono testimoni coerenti del messaggio evangelico di vita e di liberazione, di condivisione dei beni della terra, di fraternità e sororità, di giustizia e pacificazione: il lieto annuncio ai poveri, ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi. Un messaggio che cambia la vita, a partire dalla conversione interiore, dalla pratica di vita nella comunità e nella convivenza sociale, e non si limita a essere un proclama ideologico o una dottrina sociale da insegnare agli altri. Anzi il percorso sinodale deve uscire e mettersi in ascolto degli operatori di pace e di giustizia, per farsi convertire e imparare a spogliarsi dei privilegi e dei poteri economici e sociali e a diventare testimoni di nonviolenza, di perdono e pacificazione, per eliminare ogni compromesso e indifferenza che favoriscono disuguaglianze, violenze, sfruttamento, corruzione.
L’obiettivo non è recuperare la presenza identitaria e la rilevanza quantitativa del cristianesimo, non è il dialogo con la modernità per essere accattivante, convincente, ma semmai di essere piccolo segno della Resurrezione di Cristo: scandalo inquietante nella società, nel mondo che segue Cesare e mammona, l’idolatria della forza e del denaro.
“Sarà necessario, al riguardo, attrezzarsi con una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta eppure capace di immaginazione”: queste le tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017.