di Piero Stefani   

Va superata la contrapposizione tra ebraismo = Legge e cristianesimo = amore, è perciò necessario cambiare il linguaggio di tanta catechesi, predicazione; ma non è proprio Paolo che insiste su questa contrapposizione? O forse la sua opposizione non si riferisce alla tradizione ebraica ma all’ebraismo dominante al suo tempo?

Paolo non contrappone Legge e amore. Per averne una conferma è sufficiente trascrivere, nella sua interezza, un brano della lettera ai Romani:

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole, perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti “non commettere adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai“, e qualunque altro comandamento si ricapitola in questa parola: ”Amerai il prossimo come te stesso“. L'amore non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge è infatti l'amore» (Rm  13,8-10; cfr. Gal 5,14).

Ma perché allora sempre in Romani si afferma che telos della Legge è Cristo (Rm 10,4)? La parola telos va intesa come la fine o come il fine della Legge? In greco non c'è l'articolo, quindi se, (come fa Romano Penna nella recentissima traduzione Einaudi) ci attiene a questa mancanza, si propone in italiano un’ambivalenza irrisolvibile: «Infatti, fine della Legge è Cristo». L'oscillazione è di lunga durata: Vulgata: «Finis enim legis Christus»; Lutero: «Den Christus ist des Gesetzes Ende»; King James: «For Christ is the end of the law», Diodati «perocché il fin della Legge è Cristo»; per ritornare ai nostri tempi nella “Nuovissima versione della Bibbia San Paolo” (1991): «Ora il culmine della Legge è Cristo»; CEI 2008: «perché Cristo è il termine della Legge».

Apparentemente l'opzione più rassicurante è intendere Cristo come «il fine»; in realtà le cose stanno all'opposto. Per cercare di comprenderlo occorre tornare a un capitolo precedente di Romani. Nei primi capitoli della lettera Paolo si è proposto di indicare come tutti abbiano peccato, ma non tutti lo hanno fatto allo stesso modo: gli ebrei hanno peccato con la Legge e i gentili senza la Legge. Dunque la Legge, cioè la Torah, opera una distinzione tra ebrei e gentili. Questa diversità non sussiste in relazione alla fede: «la fine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede» (Rm 10,4). La giustificazione opera allo stesso modo per gli uni e per gli altri indipendentemente dalle opere della Legge. Cristo è la fine della Legge perché apre una via comune a ebrei e gentili: «Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti. Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede. Togliamo dunque ogni valore alla Legge per mezzo della fede? Nient'affatto confermiamo la Legge» (Rm 3,29-31) Confermiamo la Legge sia perché la fede accoglie in sé l'intera rivelazione biblica, sia perché i credenti sono tenuti a compiere le opere della Legge ricapitolate nell'amore del prossimo.

La fine della Legge è in definitiva un modo diverso per affermare che in Cristo non c'è né Giudeo, né Greco (Gal 3, 28). Proprio da queste convinzioni nasce il problema di chiedersi se Dio abbia o non abbia rigettato la parte di gran lunga più numerosa del popolo ebraico che non ha accolto la fede in Gesù Cristo. L'argomento troverà in Rm 9-11 la sua trattazione più ampia e drammatica. La risposta sarà che Dio non ha ripudiato il suo popolo perché «i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento» (Rm 11,29).