di Jean Louis Ska
La rappresentazione di san Matteo guidato da un angelo mentre sta scrivendo il vangelo è tradizionale. Vi sono molti esempi dello stesso tipo che corrispondono a una teoria dell’ispirazione molto antica, quella dell’ispirazione verbale: lo Spirito Santo avrebbe letteralmente “dettato” agli agiografi, gli autori sacri, ogni parola e ogni frase dei libri contenuti nella Sacra Scrittura. Ne abbiamo alcune testimonianze, ad esempio negli scritti di Gerolamo e di Agostino:
Coloro i quali intraprendono l’interpretazione della Lettera ai Romani, caratterizzata da molti passi oscuri, necessitano dell’aiuto dello Spirito Santo, che per mezzo dell’apostolo ha dettato queste cose.
(Girolamo, Lettera 120,10, Patrologia Latina, 22,997)
Se pertanto questi discepoli hanno scritto le cose che egli [Gesù] compì alla loro presenza e le parole che egli disse, non si può dire che non le abbia scritte lui in persona, in quanto queste sue membra hanno trascritto ciò che avevano appreso dal loro capo, il quale era lì dettando queste cose.
(Agostino, Il consenso degli evangelisti (De consensu Evangelistarum) 1,35,54 – Patrologia Latina, 34,1070)1
La teoria della “dettatura” e quindi dell’ispirazione verbale è stata formulata in modo estremo dal teologo domenicano spagnolo Domingo Báñez (1528-1604) che considera lo scrittore sacro, l’agiografo, come un mero strumento, un semplice copista. La conseguenza di una tale concezione è la sacralizzazione di ogni particolare, quelli della lingua stessa (ebraico, aramaico e greco), con tutte le sue particolarità, con tutte le sfumature del testo, le sue formulazioni, senza parlare del canone. I sostenitori di questo modello – ieri come oggi – insistono sul divario che separa la Scrittura da ogni opera letteraria umana. Sono due tipi totalmente diversi e parlaredell’origine umana degli scritti biblici è quasi una abominazione. Incontriamo opinioni di tale tipo dai fondamentalisti in tutte le confessioni, anche nel mondo musulmano ove l’arcangelo Gabriele ha dettato il Corano al profeta Maometto.
Altre teorie sono più sfumate, come ad esempio quella dello “organo” o “strumento” secondo la quale lo scrittore sacro è “utilizzato” dalla Spirito Santo, però conserva le sue facoltà. La teoria lascia spazio alla libertà e l’intelligenza umana, e apre lo possibilità di un’indagine sul contesto storico della messa per iscritto dei libri biblici. La teoria è antica, ed è ripresa nell’enciclica Divino Afflante Spiritù di Pio XII (1943):
[I teologi cattolici] partendo nelle loro disquisizioni dal principio che l’agiografo nello scrivere il libro sacro è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osservano che egli sotto l’azione divina talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua opera composto tutti possono facilmente raccogliere “l’indole propria di lui e come le sue personali fattezze e il suo carattere" (Cfr. Benedetto XV, Enc. “Spiritus Paraclitus”). Quindi l’interprete con ogni diligenza non trascurando i nuovi lumi apportati dalle moderne indagini, procuri discernere quale sia stata l’indole del sacro autore, quali le condizioni della sua vita, in qual tempo sia vissuto, quali fonti scritte ed orali abbia adoperate, di quali forme del dire si avvalga.
(Divino Afflante Spiritu, Enchiridion Biblicum, 556)2
Infine, si parla più spesso, in tempi più recenti, di un modello “economico” perché tiene conto dell’economia della salvezza. Secondo questa teoria, abbastanza recente, si prende in considerazione il contesto storico, letterario, linguistico, sociale e culturale degli scrittori biblici e dei loro destinatari. L’azione divina non è più vista come diretta e unilaterale, bensì come mediata attraverso il mondo umano di un popolo, dei suoi scrittori e del loro ambiente.
L’idea più diffusa fra i cristiani, tuttavia, è probabilmente quella dell’ispirazione verbale, sotto una forma più o meno sfumata. La Bibbia è parola di Dio, non è semplice parola umana e contiene, perciò, verità assolute e non relative o parziali. I libri biblici sono diversi da tutte le altre opere letterarie umane. Per questo motivo, tutto è significativo nel testo biblico e non si può trascurare niente. Ora, questa concezione crea non pochi problemi, anche se molti “buoni” cristiani preferiscono non sentirne parlare.
Un primo problema è molto semplice e riguarda il canone. Sappiamo che le diverse confessioni cristiane non hanno lo stesso canone delle Scritture. Anche gli Ebrei hanno un canone proprio e non solo perché non integrano il Nuovo Testamento. Ora, se i libri biblici sono dettati direttamente dallo Spirito Santo e portano il marchio di questa origine, non si dovrebbe avere alcune discussione in merito. La qualità particolare dei libri ispirati dovrebbe essere palese e immediatamente riconoscibile, soprattutto se si tratta di un carattere di origine divina che distingue lo scritto da altri scritti di origine umana. Ora, non è affatto il caso. Gli Ebrei, ad esempio, hanno discusso a lungo per sapere se Proverbi, Qoelet, Ester e il Cantico dei Cantici fossero ispirati e potessero far parte del loro canone. Il solo fatto che sia stato necessario discutere seriamente prima di arrivare a questa decisione significa che la cosa era lungi dall’essere evidente. Inoltre, notiamo che vi è stata una decisione umana, testimoniata dagli scritti rabbinici sulla canonicità di questi libri. L’ispirazione, in altre parole, è una qualità non manifesta, bensì riconosciuta dopo esame approfondito. Aggiungiamo che per i Sadducei e per i Samaritani, solo i primi cinque libri della Bibbia – il Pentateuco – erano considerati come libri sacri e autorevoli. Gli altri libri non godevano di questa qualità, altro motivo per pensare che l’ispirazione non sia un dato di fatto che nessuno possa negare.
Fra i cristiani, il libro dell’Apocalisse è stato discusso a lungo, accettato prima dalle chiese occidentali e molto più tardi, e con riluttanza, dalle chiese orientali. Sappiamo che diversi concili hanno discusso del canone e che le liste di libri ispirati non sono identiche. La cosa non era certo evidente per tutti nello stesso modo, ed è il minimo che possiamo dire. Inoltre, vi è stata una decisione chiara a proposito degli scritti del Nuovo Testamento: solo gli scritti che risalgono alla prima generazione cristiana possono far parte del canone. Ora, alcuni di questi scritti sono “ispirati, ma non troppo”, se mi è permesso citare una battuta del mio professore Luis Alonso Schökel. Penso in particolare alla lettera di Giuda, alla seconda e alla terza lettera di san Giovanni. La lettera a Diogneto e la Didachè, alcune lettere di san Giustino o di san Ignazio di Antiochia sono molto più ricche di profonde riflessioni teologiche, però non fanno parte del canone perché appartengono alle generazioni successive dei cristiani. Il criterio, in ogni modo, non è teologico, è molto umano, storico, e ha ben poco da vedere con un qualche carattere divino degli scritti.
Infine, come sappiamo, vi sono molte differenze fra il canone protestante, il canone ortodosso e il canone cattolico. La cosa si spiega meglio se si ammette che un libro sia dichiarato ispirato solo quando una comunità di credenti lo riconosce come tale perché rispecchia (e legittima) la sua prassi e le sue convinzioni.
Questo primo elemento mi sembra molto importante. Possiamo credere che la Bibbia sia parola di Dio, certo, però siamo noi a dirlo. In effetti, nessuna parola della Bibbia viene direttamente da Dio. I discorsi divini, ad esempio, sono sempre introdotti da formule quali “Così dice il Signore […]” o “Dio disse […]”. Orbene, questa formula non è detta da Dio, bensì da un locutore umano, e ciò significa che il discorso che segue sia trasmesso da un mediatore. Vi è sempre una mediazione umana come, ad esempio, nel primo discorso divino della Bibbia: “E Dio disse: ‘Sia la luce!’” (Gn 1,3). Non si può mai fare a meno della mediazione umana, non siamo mai di fronte a una parola divina caduta direttamente dal cielo, e il discorso divino è formulato in parole umane riprese a un linguaggio umano come tutti i linguaggi umani.
I primi due punti – le discussioni sul carattere ispirato di alcuni libri biblici e il significato della formula “E Dio disse […]” – sono già sufficienti, penso, per mettere in questione certi aspetti della teoria dell’ispirazione verbale.
D’altronde, gli studi recenti e meno recenti sull’origine e la composizione dei libri sacri pongono non pochi problemi alle nostre idee tradizionali sull’ispirazione divina della Bibbia. Ammetto subito che il problema non si pone a chi rifiuta energicamente ogni accenno a teorie di questo tipo. Certo, ciascuno ha il diritto di difendere le proprie convinzioni in merito. Però, secondo la formula di sant’Agostino, fides quaerens intellectum, “la fede cerca di capire quello che crede”. Oppure sentiamo il cardinale Carlo Maria Martini che, quando creò la cattedra dei non-credenti, insisteva sulla necessità di poter spiegare perché uno crede o perché uno non crede. Si tratta di una impostazione onesta di chi sa dare le ragioni delle sue scelte, non si rifugia nell’arbitrarietà e non vuole imporre despoticamente le sue opinioni ad altrui.
Quali sono le difficoltà? La prima è che i libri biblici sono, per la maggior parte, frutto di un lungo processo redazionale. Non sono opere di autori nel senso moderno della parola. Spesso, sono il frutto di una trasmissione orale di tradizioni comuni al popolo d’Israele o alla prima comunità cristiana. Gli autori sono quindi anonimi, sono portavoce di una tradizione solidamente ancorata nella memoria di un popolo o di una comunità. Anche i vangeli sono stati trasmessi oralmente prima di essere messi per iscritto. Perciò i vangeli sono “secondo” Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Non sono vangeli “di” Matteo, Marco, Luca e Giovanni. La sfumatura ha la sua importanza: gli evangelisti sono interpreti di una tradizione e sono al servizio di questa tradizione.
In secondo luogo, la ricerca recente ha individuato nei libri biblici, in particolare i libri veterotestamentari, la presenza di diverse fonti e di strati redazionali. Il libro della Genesi, ad esempio, è il frutto di un lungo processo di redazione a partire da brevi raccolte di racconti compilate e rielaborate in diverse tappe prima di essere unite nel libro che conosciamo attualmente. Quali sono gli autori ispirati, chi sono gli “strumenti” dello Spirito Santo? Già un Richard Simon (1638-1712) proponeva di vedere in tutti gli scrivani o scribi sacri persone guidate dalla Spirito Santo.
In terzo luogo, siamo oggi di fronte a una pluralità di testi. Sappiamo che per la sinagoga, l’unico testo autorevole e ispirato è il cosiddetto testo ebraico masoretico, con alcuni capitoli in aramaico nel libro di Ezra e nel libro di Daniele. I pochi gruppi di Samaritani rimangono fedeli al loro canone “breve”, vale a dire il Pentateuco Samaritano che contiene più o meno 6.000 differenze con il Pentateuco masoretico. Per gli ortodossi, il testo sacro è quello della cosiddetta Septuaginta o Settanta, la traduzione della Bibbia in greco che contiene alcuni libri non presente nel canone ebraico. Per i cattolici, diversi libri non presenti nel canone ebraico ma nel canone greco sono considerati ispirati e quindi “canonici”, ad esempio Giuditta, Tobia, il libro della Sapienza, il libro del Siracide, i due libri dei Maccabei, alcuni capitoli di Ester e di Daniele. I protestanti, come si sa, non ammettono nel loro “canone” quest’ultimi libri, anche se, a dire il vero, le chiese protestanti non hanno preso alcuna decisione ufficiale a proposito del canone che, pertanto, rimane teoricamente aperto. Lo stesso vale anche per le chiese ortodosse che cercano di organizzare un sinodo in proposito, il che non è ancora accaduto.
Tutto le discussione nel campo del canone mettono in evidenza un fatto difficilmente negabile: l’ispirazione dei libri sacri non s’impone da sé. Se fosse il caso, non vi sarebbero divergenze in merito. Inoltre, gli esperti ammettono che esistevano fino al terzo e al quarto secolo della nostra era diverse tradizioni testuali: il testo masoretico, il Pentateuco Samaritano, i testi biblici di Qumran e il testo ebraico tradotto dai Settanta. In effetti, per un numero sempre maggiore di specialisti, la Septuaginta non traduce il testo ebraico masoretico, bensì un testo diverso, e ogni tanto abbastanza diverso, ad esempio nel caso del libro di Geremia. Per i primi cristiani delle chiese orientali, ad esempio per Origene, il testo ispirato era il testo greco. Per le chiese latine, il testo sacro era – in pratica – il testo latino della Vulgata di san Gerolamo. Vi è anche in questo campo una varietà che ci obbliga a riflettere sulla vera natura dell’ispirazione.
Per tutti questi motivi, oggigiorno, si preferisce parlare dell’ispirazione dei libri sacri piuttosto che degli autori sacri. La sinagoga, così come le chiese cristiane, parla di libri sacri e non di autori sacri. Le liste antiche sono liste di libri, non di autori. In ogni modo, i libri hanno diversi autori e molti di questi autori sono anonimi perché trasmettono non le loro idee o credenze, bensì la tradizione comune di una comunità di credenti.
Rimane una domanda essenziale: che cosa è ispirato nel testo sacro? Esistono sin dall’inizio della tradizione biblica due tendenze opposte in proposito. Per gli uni, e sono i sostenitori della teoria dell’ispirazione verbale, il testo è ispirato perfino nei minimi particolari. Tutto è significativo e ogni sfumatura del testo deve essere valutata e presa in considerazione. Per altri, invece, il significato non è nel dettaglio, è nell’insieme. La totalità è più della somma dei suoi elementi. Per usare una immagine, l’ispirazione è da cercare non nelle singole note, bensì nella musica. Ora, vi sono buone ragioni di adottare la seconda opinione. Innanzitutto, perché il significato di una frase non è nelle singole parole, è nell’insieme della sentenza. Il significato di un testo non è in nessuna delle parole isolate, è nella totalità del discorso. Le singole parole e le singole frasi non hanno un significato se non ricollocate nell’intera opera. In parole povere, non esiste testo senza contesto. Occorre quindi tenere conto delle convenzioni letterarie del tempo, del genere letterario, della cultura e della mentalità di ogni scritto. L’idea di giustizia ha conosciuto una evoluzione e non la pensiamo oggi come ai tempi di Davide e Salomone, o di Erode e Pilato. Abbiamo oggi altre idee a proposito della schiavitù e del potere politico. Abbiamo idee molto diverse sul ruolo della donna nella società.
Prendo un solo esempio per mostrare l’importanza del contesto culturale. Nel racconto delle nozze di Cana, Maria viene a trovare Gesù e gli dice: “Non hanno vino” (Gv 2,3). Gesù ha questa risposta sorprendente e poco comprensibile: “Che c’è fra me e te, o donna?” (Gv 2,4). La cosa si chiarisce quando si ricorda che nella società del tempo donne e uomini non mangiavano mai insieme. Alle nozze di Cana, tutte le donne, compresa la sposa, si trovavano in una sala e tutti gli uomini, con lo sposo, in un’altra sala. Maria si trovava quindi con le donne, Gesù e i suoi discepoli con gli uomini. Era contrario al decoro, a tutte le abitudini e le convenienze passare da una sala all’altra. Se Maria, quindi, viene a trovare Gesù nella sala degli uomini, deve avere una ragione molto seria. E la domanda di Gesù a sua madre manifesta solo la sua sorpresa: come mai vieni a trovarmi qua?
Per tornare al nostro argomento e concludere, diciamo che l’ispirazione è da cercare nei libri, e nella totalità dei libri. Vale a dire nella Bibbia come tale. La Bibbia ebraica per gli Ebrei, le Bibbie cristiane per i cristiani. Ogni testo, ogni passo va interpretato nell’insieme della Bibbia. La Bibbia come tale è ispirata, e non si può trovare la totalità o la perfezione dell’ispirazione in un singolo passo o in un singolo brano. Per dirlo con Ugo di San Vittore: tutta la Bibbia è un solo libro e questo libro è Gesù Cristo. Per questo motivo è importante ricordare che ogni passo, ogni capitolo, ogni racconto, ogni libro è una nota o un movimento in una vasta sinfonia, e che occorre ascoltare tutta la sinfonia per capire il ruolo di ciascun elemento. La Bibbia, in altre parole, è una lunga frase che inizia con le prime parole di Genesi e si conclude con le ultime parole dell’Apocalisse. Non possiamo, certo, leggere tutto in una sola volta. Possiamo, però, capire che la pagina che leggiamo fa parte di un insieme e ha senso solo in questo insieme3.
Un’ultima domanda potrebbe sorgere alla fine di queste riflessioni. Se l’ispirazione è una qualità individuata e riconosciuta da una comunità di fedeli e di credenti, quali sono i criteri di scelta? Mi sembra poter dire che i libri biblici sono stati scelti perché rispondevano alle domande esistenziali sull’origine e la formazione del popolo o la comunità di credenti, sul senso della sua esistenza e sullo scopo della vita in comune in questo mondo. Sono scritti che permettono di definire l’identità della comunità di fede e di fissare i cardini della sua esistenza. Sono questi i principali criteri che hanno permesso alle comunità di scegliere gli scritti in cui hanno riconosciuto l’ispirazione divina. Definiscono l’identità del popolo ebraico o della comunità cristiana, e tracciano le vie essenziali della sua esistenza.
Note
1) Cf. il sito https://it.wikipedia.org/wiki/Ispirazione_della_Bibbia - consultato il 29 marzo 2022.
2) Cf. il sito https://it.wikipedia.org/wiki/Ispirazione_della_Bibbia - consultato il 29 marzo 2022.
3) Riflessioni ispirate dall’articolo di Norbert LOHFINK, “Uber die Irrtumlogiskeit und die Einheit der Schrift“, Stimmen der Zeit 174 (1964) 161- 181.