di Fulvio Ferrario
La lettura di Bonhoeffer riesce sempre ad affascinare, soprattutto a motivo del talento del teologo per le formulazioni incisive e dell'intreccio assolutamente particolare tra teologia e biografia. Mentre però testi come Sequela (1937) o le lettere dal carcere (redatte tra il 1943 e il 1944 e pubblicate postume col titolo Resistenza e resa) si prestano a diversi livelli di lettura, compresi alcuni che non richiedono particolari conoscenze teologiche o storiche, l'Etica (che possediamo nella forma di manoscritti incompiuti, redatti tra il 1940 e i primi mesi del 1943) rivela la propria originalità e fecondità anche per l'oggi solo mediante un'analisi più complessa.
Non sarebbe interessante riassumere in questa sede tali percorsi analitici[1]: mi limiterò dunque a indicare quelli che a mio giudizio sono i due assi centrali della riflessione bonhoefferiana, considerati nella loro attualità.
A titolo di premessa, va rilevato che quello bonhoefferiano è un progetto etico di carattere teologico e di impronta protestante. Con tutta la sua originalità, Bonhoeffer è un pensatore profondamente luterano, influenzato da Karl Barth e in costante dialogo con lui. Egli non è preoccupato di «fondare» il proprio discorso in termini «laici», che cioè mettano tra parentesi, sia pure provvisoriamente, la rivelazione in Gesù Cristo. Tale operazione è di solito svolta con l'intenzione di coinvolgere nel discorso persone esterne alla chiesa ed estranee alla fede. Secondo Bonhoeffer, tale coinvolgimento si raggiunge, per così dire, partendo dalla fine, cioè dai risultati della riflessione teologica, che si mostreranno obiettivamente rilevanti non solo per la chiesa, ma anche per la società. La parola della chiesa nel presente è sempre una sola, Gesù Cristo (310-319): se essa è ascoltata e annunciata come si deve, manifesterà da sé anche la propria «attualità» e la propria «rilevanza». Quando queste due dimensioni costituiscono, per così dire, un'aggiunta al discorso strettamente teologico, vuol dire che quest'ultimo, di per sé, non è attuale né rilevante. E' quanto accade, precisamente, quando il punto di partenza non è in Gesù Cristo, bensì altrove. La società e la cultura cosiddetta «laica» non hanno nulla da guadagnare da una simile «astinenza teologica»: essa, anzi, priva il dibattito pubblico della voce critica che nasce dall'interpretazione della Scrittura. L'eredità luterana e barthiana è anzitutto in questa centralità del teologico, identificato con il cristologico. Detto questo, bisogna aggiungere che Bonhoeffer non è mai un ripetitore: egli è un discepolo critico, nei confronti sia di Lutero (e, ancor più, del luteranesimo confessionale), sia di Barth. Muoversi all'interno di un'eredità significa, per lui, problematizzarla, individuarne i limiti, scavarne gli aspetti meno frequentati alla ricerca di nuove possibilità. Insomma tutto, tranne che un atteggiamento servile: la chiesa, secondo Bonhoeffer (come secondo Lutero, e secondo Barth), non ha bisogno di «teologi ufficiali», arcigni custodi di un'ortodossia, bensì di fedeltà creativa.
Cristo come legge del reale
Questa categoria è al centro dei primi manoscritti dell'Etica, quelli redatti tra l'estate e l'autunno del 1940 e rielaborati successivamente. Sono i mesi del trionfo assoluto di Hitler, dopo la resa della Francia. La cospirazione militare per abbattere il regime, alla quale Bonhoeffer collabora, si trova in drammatica difficoltà, in quanto il successo del dittatore si trasforma in prestigio; moltissimi tra i comandanti militari sono effettivamente convinti che Hiter sia un grande stratega e che l'Inghilterra dovrà arrendersi. Le ragioni dell'opposizione sembrano parlare un linguaggio diverso rispetto a quello della realtà. Il compito che Bonhoeffer si prefigge consiste appunto nel pensare teologicamente la realtà. Per farlo, ancora una volta, è necessario partire da Cristo e, più precisamente, dall'idea di Cristo come mediatore della creazione, così com'è presentata in Col. 1,16 e Gv. 1,10. Secondo tale annuncio, il mondo naturale e storico è voluto da Dio e ha una propria «logica» immanente, che è la stessa che si manifesta in Gesù Cristo[2]. Il compito della teologia, dunque, consiste nel respingere una lettura della realtà come malvagia e preda delle forze del male. Queste ultime sono indubbiamente all'opera, ma la loro vittoria riguarda la superficie della realtà e non la sua struttura intima. Nell'ora della crisi, dunque, è necessario un «realismo» che sappia scrutare al di là delle apparenze. La teologia può fornirlo perché la Scrittura interpreta la realtà al di là delle singola manifestazioni empiriche, anche se conosce molto bene anche queste ultime. La fede non va intesa come appello volontaristico a qualcosa come una ribellione nei confronti della realtà: piuttosto, essa conduce a un realismo in grado di sopportare lo scacco a partire da una più profonda presa in carico del reale.
Nella sue radice profonda, questa dinamica di pensiero si richiama alla tradizione antimarcionita e antimanichea della chiesa cristiana, che ha sempre avuto un proprio baluardo nella dottrina della creazione: contro ogni tentazione di consegnare il mondo materiale e storico al demoniaco, rifugiandosi in qualche orizzonte spirituale che si crede «superiore», la dottrina della creazione rivendica l'appartenenza del mondo a Dio e, dunque, la sua fondamentale bontà. Giustamente, la critica bonhoefferiana (in Italia, ad es., Alberto Gallas e Antonio Trupiano) ha sottolineato il contributo che questa teologia riceve in particolare dal filosofo cattolico, di ispirazione tomista, Josef Pieper. Bonhoeffer declina questa dottrina classica in senso cristologico: il primo articolo del Credo va interpretato alla luce del secondo. Cristo stesso è la chiave di comprensione (la «legge», appunto) della realtà. La teologia «della rivelazione», il famoso annuncio che piomba dall'alto, tanto caro a Karl Barth, è qui unita a una riflessione di tipo «sapienziale», cioè a una lettura della realtà che ne prende sul serio la profanità, scorgendo in essa, tuttavia, la stessa volontà che Dio manifesta nella storia di Gesù.
Qualificare questo discorso di «astrazione» sarebbe superficiale, Bonhoeffer intende dire l'esatto contrario: se la realtà, nelle sue strutture profonde, ha il volto di Gesù Cristo, suo pervertimento da parte delle forze del male può solo essere provvisorio. Bene e realtà vanno insieme. Le maggioranze possono non saperlo, il potere certamente lo ignora, ma la Bibbia e la chiesa custodiscono tale consapevolezza.
Il compito etico consiste, allora, nel restituire alla realtà la «forma» che le forze del male le hanno sottratto. E' in questo contesto che Bonhoeffer sviluppa le celebri considerazioni su «ultimo e penultimo» (120-144). La parola di Dio, nella propria assolutezza, cioè nel proprio carattere «ultimo», qualifica il mondo empirico come relativo, «penultimo»: in quanto tale, esso è lo spazio dell'etica. La prassi morale non ha il compito di effettuare la «salvezza», che è opera di Dio soltanto, bensì di «preparare la strada», come Giovanni Battista. La relatività del mondo non si contrappone all'assolutezza dell'evangelo del perdono dei peccati come la notte nella quale tutte le vacche sono nere, bensì si presenta come uno spazio nel quale l'attesa della salvezza può svolgersi in una vita «conforme» alla volontà di Dio, cioè che assume da quest'ultima la propria forma.
Responsabilità
La teoria bonhoefferiana della responsabilità è sviluppata tra il gennaio e l'estate 1942 e formulata nelle due versioni de La storia e il bene (191-261) e nello splendido Dieci anni dopo, un testo che Bonhoeffer redige per alcuni compagni di congiura in occasione del Natale 1942 e che è pubblicato come introduzione praticamente a tutte le edizioni di Resistenza e resa.
Il teologo, con ogni evidenza, intende rispondere alla critica anticristiana di Max Weber. A parere di quest'ultimo, il cristianesimo è una delle espressioni dell'etica «dei principi», che contrappone alla realtà (all'«essere») un «dover essere» costituito da affermazioni che dovrebbero essere eternamente valide, indipendentemente dalla loro effettiva praticabilità. Il Discorso della montagna costituisce, secondo Weber, una delle grandi espressioni di questa etica dei principi. Questi ultimi, però, si infrangono regolarmente contro la realtà, che procede per la propria strada, secondo le proprie leggi. L'etica della «responsabilità», per contro, prende sul serio le dinamiche interne del reale e si preoccupa non solo, né principalmente, dell'affermazione pura e semplice dei principi, bensì dell'efficacia dell'azione. Non è difficile cogliere in questa critica la posta in gioco già nella questione della legge del reale e cioè: qual'è la struttura profonda della realtà? E di conseguenza: che significa, propriamente, essere «realisti»?
Bonhoeffer riconosce le ragioni del discorso weberiano: l'opposizione al male si presenta frequentemente, in effetti, nella forma di proclami anche coraggiosi, che però non hanno la capacità di incidere. La storia e le sue dinamiche vengono lasciate in mano ai malvagi e i paladini del bene fanno la figura di don Chisciotte. Questa riflessione, però, è utilizzata per una nuova interpretazione del Discorso della montagna: nuova, per molti aspetti, anche rispetto a quanto lo stesso bonhoeffer aveva affermato in Sequela. Le parole di Gesù, secondo il teologo, non vanno interpretate come una specie di codice di un cristianesimo perfetto; esse vanno lette, invece, alla luce della prassi di Gesù stesso, il quale entra nelle pieghe della realtà, le interpreta e, in essa (non contro la realtà, né al di sopra, né al di fuori di essa) manifesta la volontà di Dio. La responsabilità consiste nel prendere sul serio la complessità del reale e rischiare l'azione, anche contro i principi. L'alternativa a don Chisciotte non è Sancho Panza, cioè l'asservimento opportunistico allo spirito del tempo, bensì il tentativo di intervenire nella realtà «rispondendo» all'appello inscritto in essa e decifrato mediante la parola di Dio.
Per Bonhoeffer, anche l'azione responsabile può essere colpevole. Se la dimensione della colpa attraversa la realtà, allora agire in essa significa caricarsi della colpa. Uccidere il tiranno è, al tempo stesso, azione responsabile e colpevole. La colpa è messa nel segno di ciò che è «ultimo», cioè del perdono di Dio. Il protestante Bonhoeffer si differenzia qui da una semplice teoria del «minor male». Come nel caso della dottrina di Cristo come legge del reale, la teoria bonhoefferiana della responsabilità vuole proporre un «realismo teologico» fondato nella persona di Cristo, come irruzione dell'Ultimo che crea la libertà di agire nel Penultimo.
Bonhoeffer «antidemocratico»
Il Bonhoeffer dell'Etica manifesta (non diversamente, peraltro, da Socrate, da Platone, o degli stessi evangeli, quando presentano il sondaggio di opinione indetto da Pilato su Gesù e Barabba) un marcato scetticismo nei confronti della «democrazia», intesa come governo della maggioranza. Nel frattempo, abbiamo tutti imparato ad apprezzare il realismo (non teologico, in questo caso) di Churchill, quando afferma che «la democrazia è il peggiore dei sistemi possibili, tranne tutti gli altri». Rileviamo, tuttavia, che la cronaca pone quotidianamente il problema di una resistenza etica a una vox populi barbarica, che rinuncia all'analisi della realtà e si pasce di slogan truculenti ammanniti da un potere irresponsabile. Come sempre in questi casi, la malvagità non è monopolio dei cattivi di professione, bensì pervade e perverte, nella dinamica in teoria assai nota della «banalità del male», il sentire comune. Un famoso giornalista si chiedeva, commentando l'auspicio che la comandante della nave Sea Watch fosse stuprata da «quei negri», quali ragioni «laiche» si possano opporre al consenso imbarbarito. Non lo so, sinceramente. Bonhoeffer propone le ragioni della fede.
Note
[1] Per ricostruzione del contesto, l'analisi dei testi, l'inquadramento critico e la bibliografia rimando al mio libro: L'Etica di Bonhoeffer. Una guida alla lettura, Claudiana, Torino, 2018. Le indicazioni tra parentesi nel testo si riferiscono a D. Bonhoeffer, Etica, Queriniana, Brescia, 1995.
[2] La dottrina della creazione di Karl Barth, redatta esattamente in quegli anni e pubblicata dopo la guerra, si muove nella sdtessa direzione: Barth parla della creazione come fondamento esterno dell'alleanza e dell'alleanza come fondamento interno della creazione: K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik III/1, TVZ, Zürich, 1945, 103-377.