di Daniele Garota
Chi crede sa che Dio ha creato in principio ogni cosa e che ci salverà alla “fine del mondo” (Mt 13,40). Per i cristiani al centro di tutto c’è poi l’incarnazione di Dio, il suo esser diventato, duemila anni fa, “carne” in Cristo. E sarà proprio questo Dio così ridotto a umiltà e piccolezza a salvare e giudicare tutto quanto avrà vissuto qui sulla terra, dal primo all’ultimo giorno.
Ma l’abbassarsi di Dio la tradizione ebraica dice esserci stato fin dal principio, là dove la creazione non sarebbe scaturita armonica da un disegno ben programmato e perfetto, ma da una sorta d’improvvisazione attraverso la quale Dio avrebbe fatto, guastato e rifatto più volte il mondo, fino a quando decise di mandarlo avanti anche se ancora con qualche lacuna, come dicendo: ‘Speriamo che tenga!’. In un’altra versione si parla addirittura di un suo rinunciare a qualcosa di sé per dare vita all’altro da sé di fronte a sé (tzim tzum), molto confidando nel libero muoversi della sua creatura, avendone fin da subito un infinito bisogno, il bisogno di chi ama e vuol essere amato, costi quel che costi, fosse anche il morire in croce se occorre. Il teologo russo Nesmelov ha detto che se Dio ha scelto di incarnarsi fino a morire non è stato solo per salvarci, ma anche per espiare la colpa di aver creato e fatto andare avanti un mondo carente su troppe cose.
E dove salire ormai, di fronte a certi vortici riguardanti Dio, l’amore, la libertà, il male, la morte, se non sulle spalle di un gigante come Pascal? Visse solo 39 anni e in mezzo a indicibili sofferenze, ma cosa sarebbe il nostro moderno modo di pensare e di credere, senza uno come lui? E soprattutto tenendo conto di come il suo fosse anche il tempo del “cogito ergo sum” di Cartesio e della sicurezza con cui uno Spinoza riteneva la Bibbia nulla più che frutto di fantasia.
“L’uomo - diceva Pascal - è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa”. L’universo intero lo schiaccia e l’annulla in un attimo, anche soltanto con la sua presenza, eppure solo lui lo sa mentre l’universo “non ne sa nulla” (Pensieri, 377). Ma proprio per questo col sapere l’uomo deve andar cauto, il rischio è infatti quello di diventare “inutile e incerto” come Cartesio, al quale non poteva essere perdonato quel “poter fare a meno di Dio”, se non dopo avergli fatto “dare un colpetto per mettere in movimento il mondo”, e poi subito abbandonarlo non sapendo più “che farsi di lui” (Pensieri, 50-51). Mai dimenticare che proprio lì, nascosto dentro il preziosissimo dono della conoscenza, si cela la più terribile delle trappole, quella che ha incastrato fin dall’inizio noi e la terra nella morsa maledetta del male e della morte. No, non è stato Dio a creare “la morte”, essa è entrata nel mondo “per invidia del diavolo” (Sap 1,13; 2,24). E se è diventato un “maledetto appeso al legno” il Cristo, è per riscattarci dalla maledizione immane venuta da quella stessa trappola (Gal 3,13-14).
Attorno all’idea del ‘peccato originale’ in troppi pensano che il vero problema sia la disobbedienza, ma non è così. È piuttosto la pretesa di decidere da sé cosa sia bene e cosa male fino a trovare da soli la soluzione a ogni cosa il dramma vero fin da principio. È la presunzione di sapere e saper fare tutto a impedirci di desiderare quella salvezza futura che, come ben sapeva Paolo, non può esserci data a seguito dei nostri meriti e delle nostre forze, ma soltanto grazie alla fede che c’induce a umilmente invocarla e attenderla dalle mani del Signore. Anche Gesù è stato molto esplicito: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Insomma, Dio è ancora sempre là nel futuro per salvarci, bisognoso di noi e del nostro credere più di quanto riusciamo a immaginare.
Il nome stesso di Dio, rivelato a Mosè presso il roveto che ardeva senza consumarsi, dice ancora a noi due cose: che Dio non abbandona chi soffre, giungendo addirittura a soffrire del nostro stesso dolore (per questo è apparso sulle spine, dice la tradizione ebraica), e che ci farà vedere davvero chi è nel compimento futuro che ci è stato promesso. Il: “se non credete che Io Sono morirete”, uscito dalla stessa bocca di Gesù (Gv 8,24), non può che alludere al Nome divino rivelato a Mosè in Esodo 3,14, esattamente come anche vi alludono quel: “prima che Abramo fosse Io sono” (Gv 8,58), quel: “Egli era, in principio, presso Dio” e quel: “senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,2-3). Il mistero trinitario contiene in sé tutto il mistero della salvezza. “Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Ap 1,8).
Alla fede più che la risurrezione di Gesù, già accaduta, interessa la risurrezione dei morti che deve ancora accadere, e questo perché, come Paolo insiste dicendolo per ben tre volte di seguito ai Corinzi: “Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto!” (1Cor 15, 12-19). Come la verità di Gesù risorto sarà confermata soltanto col concretissimo fatto della risurrezione dei morti, così anche quella che siano state le “dita” di Dio a fissare “la luna e le stelle (Sal 8,4.7), sarà confermata soltanto quando vedremo finalmente “un cielo nuovo e una terra nuova”, con Dio che vi abita insieme a noi asciugandoci “ogni lacrima” dagli “occhi” (Ap 21,1-4).
Andare oltre, voler capire oltre, non fa che renderci prigionieri di quelle potentissime quanto miserrime conoscenze nelle quali restiamo impigliati e prigionieri da mattino a sera, come se ormai nessuna vera novità possa esserci data, come se le ‘tenebre’ avendo avuto la meglio sulla ‘luce’ abbiano finito per renderci tutti assuefatti e addormentati, inghiottiti dalle eterne necessità dell’essere, dal ‘due più due fa quattro’ della ragione.
Al culmine della ragione e della conoscenza c’è il desiderio di ‘pace e sicurezza’, di quel ‘niente di nuovo sotto il sole’ che fa stare tranquilli. Non così la fede, in grado di mettere l’intero “mondo in agitazione” (At 17,6) fino a quando non giunge la novità assoluta del Regno promesso. Questa non altra è la fede della “vedova” che insiste col “giudice” fino alla nausea pur di ottenere “giustizia”, una fede che tuttavia il “Figlio dell’uomo” teme di non trovare più quando di nuovo verrà “sulla terra” (Lc 18,1-8).
A Paolo non interessava un fico secco, nemmeno pochi decenni dopo la risurrezione di Cristo, l’andare alla ricerca di prove provate intorno al sepolcro vuoto, figuriamoci dunque cosa a lui importasse d’indagare sulle origini dell’universo. Al suo cuore di credente interessava la voce del Risorto udita sulla via di Damasco, la voce del “Signore Dio” che aveva rivelato a Isaia chi sia stato a creare “la terra con ciò che vi nasce”, dando “il respiro alla gente che la abita” (Is 42,1-2). A interessare il credente non è l’origine di cui non possiamo sapere più di tanto, ma quello che Dio ci dona e ci dice in ogni momento, promettendo non solo di non lasciarci “orfani” (Gv 14,18), ma anche la liberazione futura dal male e dalla morte.
È null’altro in fondo che la ragione a rendere vana la fede, ponendo limiti a Dio a cui “tutto è possibile”, anche quel che “è impossibile agli uomini” (Mt 19,26). Essere sicuri delle evidenze non è difficile, difficile è arrivare a comprendere quel che riuscì a comprendere Dostoevskij, quando scrisse a una sua amica: “se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Col ragionevole da tutti naturalmente creduto si è in una gabbia d’acciaio in cui dormire sonni tranquilli, certo, ma col Creatore dei mondi che s’abbassa fino a morire in croce urlando di non voler morire, le cose cambiano, e solo se prima si fugge scandalizzati si può comprendere qualcosa non prima, come intuì Kark Barth. Se non ti metti a piangere e soffrire per il tuo esserti assuefatto e addormentato, non riuscendo a vegliare “una sola ora” con lui (Mt 26,40-41), o per il tuo averlo rinnegato più volte (Mt 26,75), non puoi capire nulla, c’è poco da fare.
Se Gesù è in agonia “sino alla fine del mondo”, come ci ha detto Pascal (Pensieri, 806), è perché sono troppe le creature che continuano in ogni istante a soffrire sulla terra, mentr’egli è lasciato solo con loro e come loro a soffrire. Non soltanto infatti “la creazione geme e soffre”, nell’“ardente aspettativa di essere “liberata dalla schiavitù della corruzione”, non soltanto anche noi credenti insieme a essa attendiamo “con perseveranza” tali cose, ma “lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili”, dunque soffrendo con noi e come noi in attesa di “redenzione” (Rm 8,19-27).
Per il muro incrollabile della ragione non è possibile che un Dio abbia creato il mondo, e ancor meno lo è che lo salvi, se non altro perché tutto ragionevolmente e naturalmente prosegue secondo le eterne leggi di sempre, quelle secondo le quali tutto nasce per morire e muore per rinascere. Cos’è questo assurdo incaponirsi contro la morte chiamandola addirittura “l’ultimo nemico”, che Dio dovrà annientare per riuscire a porre ogni cosa “sotto i suoi piedi” (1Cor 26-27)? Cos’è questa follia di tirare in ballo un Dio che si fa uomo, fino a farsi ammazzare per riuscire a vincere la morte e che poi risorge promettendo di vincerla anche per tutti noi? Come avrebbero potuto non ridere in faccia a Paolo i filosofi di Atene, quando provò anche solo a farne cenno (At 17,32)?
“È veramente singolare che nessun autore canonico si sia servito della natura per dimostrare l’esistenza di Dio” sottolinea Pascal (Pensieri, 108), così com’è significativo che l’evangelista Marco ci abbia voluto trasmettere che chi davvero comprese e confessò che Gesù è il “Figlio di Dio”, non sia stato un apostolo davanti allo strabiliante miracolo della risurrezione di qualcuno, ma “il centurione” che aveva poco prima capeggiato le terribili operazioni della crocifissione e vedendolo “di fronte” a lui “spirare in quel modo” (Mc 15,39).
A una fede resa impossibile da un sapere che rinserra ormai ogni cosa entro i confini del proprio orizzonte, corrisponde la tracotanza di una umanità che presume di migliorare indefinitamente da sé il mondo, “pretendendo di essere Dio” (2Ts 2,4). Come può credere e desiderare la rottura del muro della ragione chi ha quel muro come ultimo confine, chi non riesce nemmeno a immaginare come soltanto oltre quel muro possa esserci data la salvezza?
Quando Heidegger, nella sua famosa intervista rilasciata allo Spiegel nel 1966, disse che “ormai solo un Dio ci può salvare”, non era certo la fede a suggerirglielo, ma l’aver semplicemente toccato con lucidità di ragione l’impotenza della filosofia di fronte alle grandi questioni sollevate da una tecnica, che già da allora sradicava “l’uomo sempre più dalla terra”. No, diceva, “non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto”, basta osservare (con spavento però, altrimenti non si capisce nulla) “le fotografie della Terra scattate dalla Luna”. Era dunque l’impotenza e la fragilità umane, nascoste dietro la gran presunzione di potenza, a suggerire ad Heidegger, come ultima possibilità rimastaci, “quella di “preparare (Vorbereiten) nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft) all’apparire del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)”.
E come può tutto questo non far venire in mente, a chi riesce ancora a credere, quel che disse il Cristo invitandoci a vegliare e star pronti, avvertendoci che proprio così sarebbero andate a finire le cose, avvicinandosi il giorno della sua improvvisa venuta?