- continua il dibattito su Fede in tempo di pandemia -
Forse è ormai ora di comprendere un po’ meglio quanto di nuovo ci sta accadendo intorno da qualche mese, e di farlo cercando di guardare però le cose da lontano, da fuori della ‘foresta’ – direbbe qualcuno - standovi dentro infatti il rischio è di vedere qualche albero e nulla più. Ma, ripeto, è comunque troppo presto per comprendere davvero: ancora un po’ tutti si naviga a vista, essendoci dentro fino al collo e come storditi.
Anche il virus, esattamente come il denaro oggi, viaggia invisibilmente a livello planetario coinvolgendo tutti con potenza di contagio mai vista prima. Ormai non è più soltanto il “Paràclito”, “lo Spirito della verità” ad attraversare in maniera invisibile il mondo non lasciandoci “orfani” (Gv 14,16-18), ma ben altro. Fino a poco tempo fa eravamo attaccati fin troppo soltanto a ciò che ci stava vicino e potevamo vedere e toccare, eravamo cioè fin troppo materialisti, ora da tempo è la realtà virtuale ad attrarci col rischio di nemmeno più accorgerci dei bisogni di chi ci sta a fianco.
Da parte mia poi, non potrò che balbettare qualcosa in quanto credente che non riesce a entrare in chiesa la domenica senza provare un certo disagio di fronte a chiese sempre più vuote. Un vuoto che può anche essere letto come segno di un vuoto ancora più grave per chi crede: il vuoto della fede di praticanti che in troppi casi non sanno nemmeno più il significato del loro andare a Messa. Certo, l’isolamento forzato con la chiusura per mesi dei luoghi di culto uno scossone l’ha dato: mai ci si era visti costretti ad assistere alla liturgia da casa tramite quei mezzi attraverso i quali ormai soltanto sembriamo davvero comunicare: la realtà virtuale ha forzatamente invaso anche l’Eucaristia con tutta la sua misteriosa concretezza di realtà, di corporeità che rimanda al cuore della nostra esperienza di fede. Mai dimenticare che i primi cristiani si baciavano col “bacio santo” (1Ts 5,26) bocca a bocca, entrando in comunione tra loro (conspiratio) e con lo stesso Spirito Santo che lì aveva potenza non solo di trasformare in corpo e sangue del Signore il pane e il vino concretamente presenti sulla mensa, ma anche di alimentare nel cuore dei presenti l’attesa del banchetto del Regno promesso. E non va nemmeno dimenticata la potenza di fedeltà allo Spirito e a Cristo con cui un Francesco d’Assisi abbracciava e baciava il lebbroso.
Tutti sanno che il “folle uomo” di Nietzsche si mise a cercare Dio correndo una mattina al mercato e mettendosi a gridare chiedendo “incessantemente” a tutti dove fosse, ma pochi ricordano che fece anche “irruzione quello stesso giorno, in diverse chiese”, che fu cacciato fuori e che interrogato rispose “invariabilmente in questo modo: ‘Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?’” (La gaia scienza, 125). Oggi sarebbe entrato con la mascherina, certo, ma cos’altro avrebbe potuto percepire tra noi se non lo stesso vuoto, se non il nostro aver abbandonato e ucciso Dio? E non dimentichiamo che la morte di Cristo, duemila anni fa, fu voluta soprattutto dalle autorità religiose del tempo, gente che frequentava molto il Tempio. Questo è il punto vero su cui riflettere ora: il dramma della croce che termina con la scomparsa della “fede sulla terra” (Lc 18,8).
Ma accanto a questo dramma vi è oggi quello di una crepa che si è improvvisamente aperta all’interno delle nostre rassicuranti certezze. E la scienza sembra non rispondere più alle nostre domande fatte in superficie e a raffica con smartphone sempre a portata di mano, compresa quella sul venire al mondo di questo strano virus che sembra tra l’altro cambiar carattere ogni volta. Prima erano almeno solo gli anziani a esserne colpiti, oggi i contagi viaggiano con l’età media sotto la trentina, e si devono pur riaprire le scuole. Sappiamo poi con certezza che non sia uscito di mano durante qualche pastrocchio di laboratorio dove ormai si fa’ di tutto in gran segreto per guerre chimiche o schifezze simili? La verità a volte più che esserci impedito di conoscerla non la vogliamo proprio conoscere, tanto la temiamo. Che siamo “sull’orlo di una catastrofe climatica globale” l’ha detto già da tempo in pubblico il nostro Presidente Sergio Mattarella, e non è forse vero che un po’ tutti si continua a far finta di niente sebbene proprio il blocco di tutte le nostre attività di produzione e trasporto ci abbia mostrato ultimamente come sia in fondo facile fare qualcosa per ripulire i cieli sopra le grandi città industriali e l’acqua nei canali di Venezia?
Il fatto è che quel che ci sta cadendo addosso è talmente nuovo che non sappiamo più da che parte cominciare. Abbiamo assistito al triste spettacolo di gente potentissima che vaneggiava dicendo con sicurezza cose che sistematicamente gli toccava smentire il giorno dopo e senza che più ormai qualcuno si scandalizzi, tanto siamo assuefatti alla menzogna a tutti i livelli. Chi l’avrebbe mai detto del resto anche solo pochi mesi fa che quanto vedevamo accadere nella retrograda Cina, dove ancora ci sarebbe gente che mangia topi vivi, che sarebbe poi accaduto anche nel nostro avanzatissimo Veneto o, addirittura all’interno dei civilissimi USA?
Con la gran voglia che abbiamo d’esser lasciati in “pace e sicurezza” (1Ts 5,3) va spesso a braccetto il desiderio di non capire, di non aprire gli occhi proprio su quel che più conta. Oppure è vero che in alto ci sta ancora un Dio che acceca, come hanno detto in tanti arrivando a leggere in profondità i profeti antichi e il Nuovo Testamento? Non parlava forse in parabole Gesù per non essere compreso (Mc 4,10-12), dicendo agli avversari: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41)?
È un gran problema quando “non ci sono più profeti / e tra noi nessuno sa fino a quando” (Sal 73,9). E se fosse proprio questo il tempo in cui, scomparsi la fede e i profeti il Signore nostro si decidesse finalmente a venire all’improvviso a salvarci? Non credevano forse in questa imminenza i credenti della prima ora del cristianesimo? Non potremmo del resto noi sentire come già Paolo, la salvezza “più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11)? E perché un credente, ora come allora, non potrebbe addirittura desiderare questo, patendone l’assenza come Dio stesso prima di noi patisce per non averci ancora salvati? Ricordiamoci di Bonhoeffer: non “l’atto religioso” ci fa essere cristiani, “ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”. E questo perché, diceva, “la Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio”, al fatto che “solo il Dio sofferente può aiutare” (Resistenza e resa).
Noi abbiamo già visto, e molto di recente, giorni di “grande strage”, soltanto ad Auschwitz sei milioni di figli d’Israele e tra essi due milioni di bambini ne ha fatti fuori il ‘mostro’ appena qualche decennio fa. E all’inizio di questo millennio abbiamo pure visto cadere “le torri” (Is 30,25) nel cuore della più potente tra le nostre nazioni, con scene impressionanti viste quasi in diretta da tutti e in tutto il pianeta.
Come si fa a dire che il nostro non sia il migliore dei mondi possibili? Ma, al tempo stesso, come si fa a dire che non sia anche il peggiore? È quello che ci salva dal male come nessun mondo ha fatto in precedenza, ma anche quello che ha visto nell’ultimo secolo più vittime di quelle di tutta la storia precedente e, soprattutto il più rischioso, con pericoli incombenti su tutta l’umanità e tutto il pianeta. E c’è poi la grande, diffusissima (chi può chiamarsi fuori?), inimmaginabile ingiustizia! Mi salì un groppo alla gola quando già parecchio tempo fa seppi che col solo pane gettato nelle pattumiere di New York si potrebbero sfamare gli oltre ventimila esseri umani che ogni giorno nel mondo muoiono di fame, e tra essi molti bambini.
Ci sono dei versi che Hölderlin scrisse nel suo lungo ritiro e nella sua immensa tristezza che molto colpirono anche Heidegger, che giunse a vedervi una sorta di formula del ‘dominio planetario della tecnica’ e che suonano così: “Prossimo / è il Dio e difficile è afferrarlo. / Dove però è il rischio / anche ciò che salva cresce” (Patmos). Non sono forse i nostri anche i tempi dove proprio dalla bocca dei non credenti possono giungere le intuizioni più lucide e autenticamente rivelative, apocalittiche nel senso buono del termine? È come se il male e il rimedio della salvezza si implicassero a vicenda. È questo non altro del resto il motivo per cui proprio il Katechon che frena il dilagare del male finisce per frenare anche la Parusìa, la venuta del “Signore Gesù”, il solo in grado di distruggere e annientare “l’empio”, che anche si manifesterà alla fine, ma “nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità” in grado di far fuori molti tra noi (cfr 2Ts 2,3-12).
Non batte forse attorno a queste dinamiche il cuore della speranza apocalittica così come la troviamo qua e là a noi trasmessa da tutto il Nuovo Testamento? Non è questa la speranza di cui ha parlato lo stesso Gesù dicendoci: “Quando cominceranno ad accadere queste cose”, quando cioè si vedranno segni che porteranno un’“angoscia di popoli” tale che “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”, ecco proprio in tale momento “risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,25-28)?
Se, ancora oggi, davanti a tutto quanto succede e ci angoscia, i cristiani non hanno più dentro una speranza di questo spessore, ciò vuol dire che qualcosa di grande abbiamo perduto. Anche qui è Nietzsche a mettere il dito nella piaga: “Ma voi, se la vostra fede vi rende beati, datevi dunque per beati! Le vostre facce sono state per la vostra fede sempre più dannose delle nostre ragioni. Se il lieto messaggio della vostra Bibbia vi stesse scritto in viso, non avreste bisogno di esigere così ostinatamente fede nell’autorità di questo libro: le vostre parole, le vostre azioni dovrebbero di continuo rendere superflua la Bibbia, da voi dovrebbe continuamente nascere una nuova Bibbia! Così invece tutta la vostra apologia del cristianesimo ha la sua radice nella vostra mancanza di cristianesimo” (Umano troppo umano, II,98).