riprendiamo l'articolo di Valentina Pazé pubblicato sulla Rivista il Mulino il 6 giugno 2023
Di che cosa parliamo quando parliamo di maternità surrogata? Oggi tutti si esprimono sull’argomento, con piglio sicuro e toni ultimativi, in un clima politico fortemente ideologizzato e inquinato da confusioni, ambiguità, malintesi, primo fra tutti quello derivante dall’indebita sovrapposizione di questo tema con quello dei diritti delle coppie omosessuali. Può allora essere utile ripartire dall’inizio e provare a fissare alcuni punti fermi.
La surrogazione di maternità, o gestazione per altri (di qui in poi, per comodità, anche Gpa), è una pratica che consente di scomporre il processo procreativo in varie fasi, affidandole a soggetti diversi. Il modello oggi di gran lunga prevalente prevede che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna (diversa dalla prima) si offra per ospitare nel proprio utero gli embrioni (spesso più di uno) creati in laboratorio attraverso le tecniche della fecondazione in vitro. Ne risulterà una gravidanza particolarmente impegnativa per la gestante, tenuta ad assumere ormoni prima e dopo l’impianto ed esposta al rischio di complicanze, aborti spontanei, depressione post-partum superiore alla media. Non proprio una gravidanza fisiologica, dunque, nonostante si senta talvolta parlare della Gpa come di una pratica “vecchia come il mondo”, di cui si troverebbe traccia già nella Genesi, dove Agar (una schiava!) dà un figlio ad Abramo…
Quando parliamo di maternità surrogata ci riferiamo, inoltre, a un rapporto giuridico, mediato da un contratto tra soggetti privati, che richiede talvolta di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. A sottoscrivere l’accordo c’è, da un lato, la donna che si impegna a portare avanti la gravidanza, rinunciando a rivendicare qualsiasi legame con il bambino che ha partorito. La chiamerò, di qui in poi, “madre naturale” o “madre surrogata”. Non “portatrice”, come si usa anche fare, perché è termine asettico che banalizza in modo davvero inaccettabile l’esperienza della gravidanza, nel corso della quale la madre ha scambi biologici ed emozionali con il feto, comprovati dall’epigenetica. Dall’altro lato ci sono i singoli o le coppie infertili che alla donna si rivolgono per superare la loro impossibilità di generare. Li chiamerò, di qui in avanti, “committenti” o “genitori intenzionali” (le formule più frequentemente usate nei testi legislativi, là dove la Gpa è legale).
Ciò che mi sembra importante evidenziare è che stiamo parlando di un accordo che intercorre tra persone che prima di essere state messe in contatto da un’agenzia non si conoscevano. Questo è il caso tipico, per lo meno. Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella, un’amica o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà ci sono tutta una serie di altri soggetti attorno alle parti che siglano il contratto: agenzie incaricate di fare incontrare la domanda e l’offerta (e di provvedere alla necessaria “formazione” della surrogata), cliniche, avvocati, psicologi. Un indotto dalle ricadute economiche non indifferenti, che contribuisce a dare un’idea degli interessi in gioco, anche là dove la Gpa sia ammessa esclusivamente nella forma “altruistica”.
Ecco un ulteriore punto da chiarire, forse il più delicato e controverso dell’intera faccenda. Oggi normalmente si distinguono due versioni di Gpa: commerciale e altruistica. Nel primo caso la donna che sottoscrive il contratto viene remunerata per il suo “lavoro”, nel secondo riceve un “rimborso spese”. Nella realtà, distinguere tra queste due forme di compenso è molto difficile. Daniela Danna, una delle massime esperte italiane sul tema, non ha dubbi:
“La differenza tra Gpa altruistica e Gpa commerciale […] non esiste. Le donne, tranne rarissime eccezioni nell’ambito di relazioni strette già esistenti – non si prestano a portare a termine una gravidanza per altri se non ricevono un compenso, in alcuni paesi ufficialmente sottoposto a un tetto (facile da aggirare)” (“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, p. 6).
Distinguere tra remunerazione e rimborso è arduo non solo per la facilità con cui i controlli possono essere aggirati, ma perché il rimborso tipicamente non copre solo le spese mediche o gli abiti pre-maman, ma anche i “mancati guadagni” di donne che, al momento della stipula del contratto, possono essere disoccupate o lavoratrici precarie.
Più in generale, distinguere tra “lavoro” e “dono”, in questo campo, non è semplice. In tutti i casi, lo abbiamo visto, esiste un contratto, che vincola la gestante a tutta una serie di obblighi (stile di vita salubre, accertamenti medici, assistenza psicologica), limitandone la libertà, per non parlare della privacy. In alcuni casi i contratti prevedono che la stessa decisione di abortire, o non abortire (quando siano consigliabili interventi di “riduzione embrionale”) non sia pienamente nella disponibilità della donna, tenuta a risarcire i genitori intenzionali in caso di scelte a loro sgradite.
Esiste poi, soprattutto, l’obbligo di consegnare il neonato a coloro che lo hanno “commissionato”. Su questo punto è bene essere chiari. Si favoleggia, talvolta, di Paesi che riconoscerebbero alla donna il diritto di cambiare idea, nel caso in cui l’esperienza della gravidanza e del parto faccia sorgere in lei il desiderio di non interrompere la relazione con il suo bambino. La realtà è diversa. In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di Paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali. Non diversamente dispone il progetto di legge elaborato dall’associazione Coscioni, depositato in parlamento durante la scorsa legislatura: in caso di controversie tra committenti e madre naturale deciderà un giudice, “adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un tribunale. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del minore ad essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai genitori intenzionali. Solidarietà obbligatoria? Altruismo forzato? Dono esigibile per via giudiziaria? È chiaro che la presenza di un accordo giuridicamente vincolante e formalmente coercibile cozza con l’idea di un gesto gratuito e ispirato a generosità…
Ma perché, allora, è così facile imbattersi in testimonianze di madri surrogate che dichiarano di avere agito per amore, e non per soldi? (per farsi un’idea, si veda il volume di S. Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri , Fandango, 2017). A me sembra che si debba riflettere per lo meno su due aspetti. Per un verso – l’abbiamo visto – non dobbiamo pensare alla Gpa come a una relazione che riguarda esclusivamente una donna e una coppia infertile, ma tenere presente ciò che si muove dietro di loro: le agenzie, le cliniche, gli studi legali, gli psicologi… Il fatto che una surrogata non sia (ufficialmente) pagata, insomma, non implica che attorno a lei non esista un mercato. E dove c’è mercato c’è marketing; ci sono le donne che fanno da testimonial per le agenzie e sono tenute a restituire una certa immagine dell’attività in cui sono state coinvolte. Ma c’è poi, forse, anche una spiegazione più banale dietro al grande bisogno di alcune madri surrogate, e di coloro che ad esse si rivolgono, di raccontare – e raccontarsi – la Gpa in termini diversi da uno scambio commerciale: il fatto che, osservata dall’esterno, assomiglia un po’ troppo alla compravendita di un bambino. Qualcosa che perfino nell’epoca del neo-liberismo trionfante risulta difficile da accettare…
Su questo aspetto vale la pena di interrogarsi. Che cosa vendono, o “regalano”, le surrogate? Un bambino? O piuttosto un servizio, una prestazione, per quanto molto particolare e irriducibile a qualsiasi altra, perché consistente nella messa al mondo di un essere umano? Al di là della difficile risposta a questo quesito, una delle ragioni per cui dovrebbe essere a mio avviso mantenuto il divieto della Gpa ha a che fare con il rischio che l’esperienza sempre singolare e concreta della gravidanza venga banalizzata e ridotta a mera fabbricazione di un “prodotto” da offrire a chi ne faccia richiesta.
L’altra ragione, su cui mi sono soffermata maggiormente altrove (Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato, Bollati Boringheri, 2023) rinvia alla libertà delle donne di autodeterminarsi, che non va confusa con l’autonomia negoziale e va difesa anche contro le pressioni del mercato.
Il fatto che i bambini siano persone, e non oggetti, se per un verso giustifica il divieto di istituzionalizzare una pratica che li priva programmaticamente della relazione con colei che li ha messi al mondo, per altro verso induce a criticare proposte di legge punitive come quella presentata in Parlamento dalle destre, che, facendo della Gpa un “reato universale”, avrebbe ricadute deleterie sui bambini già nati attraverso tale pratica. Se i bambini sono persone, se i loro bisogni devono essere messi al primo posto, non si possono fare pagare a loro le colpe degli adulti che, per averli, hanno fatto ricorso alla Gpa nei Paesi in cui è legalmente riconosciuta. “Colpe”, peraltro, originate da un desiderio di genitorialità comprensibile, che non va criminalizzato. Non si tratta qui di inasprire le pene e rendere la vita difficile ai trasgressori. Si tratta di fare una battaglia culturale sul significato della Gpa, che non può essere considerata una semplice tecnica di riproduzione assistita. E chiedersi se il desiderio di avere bambini, di accudirli e amarli non possa essere soddisfatto attraverso forme di genitorialità diverse da quella biologica, basate sull’adozione e sull’affido (da aprire anche alle coppie omosessuali). E forse anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per esprimersi.