di Paola Cavallari
La mia vita si snoda, ormai da quarant’anni, nel campo gravitazionale del movimento femminista. Ecco perché ho accettato ben volentieri di occuparmi di Esodo ai suoi esordi guardandolo con questa lente, spiando l’eco di presenza di donne che in quella stagione apparve. Mi era stato detto che non c’era quasi nulla (guarda un po’!)… e invece!
Disseppellire quelle tracce è non solo un gesto di grato riconoscermi nell’ispirazione della Rivista, ma un’operazione politica. Estrarre dall’oblio le impronte di donne che qui hanno lasciato cadere semi, è collaborare all’edificazione di una storia. Una storia differente: 1) perché critica della Storia, sempre immemore della differenza del femminile; 2) perché inclusiva di ogni altra differenza, quindi attenta alle tante differenze che popolano il passato. Nei manuali di storia per le scuole, ci si interessa all’universo femminile riservandogli, qua e là, qualche “finestra di approfondimento”.
A prescindere dalla sproporzione smisurata tra il tutto e la parte, si ignora in questo modo che il passato - riguardante ovviamente uomini e donne - è stato suddiviso in categorie e interpretato privilegiando quella del pubblico/politico a detrimento del privato/personale. Si è riproposta così la gerarchia del maschile e del femminile. Il privato - il mondo degli affetti e della sessualità - non solo viene interpretato come spazio del soggettivo, quindi “ininfluente” ai fini dell’“oggettività del sapere”, ma viene confinato come retrobottega, che non determina le vicende della supposta autonomia e prestigio della sfera del politico.
Le pagine di Esodo che ho esaminato emanano la ricca povertà e l’ardore dei fogli di ciclostile di un’epoca vitale. Ora, quelle pagine “sciupate” dallo scorrere del tempo, impregnate dall’aroma della nostalgia, sono frammenti di una testimonianza preziosa anche oltre i confini di Esodo. La storica Anna Bravo, nel suo A colpi di cuore, esperienze del ‘68, un libro di cui mi è dispiaciuto essere arrivata alla fine, rileva che sono alquanto scarse le fonti relative a donne che, sull’onda del primo femminismo dell’autocoscienza, hanno prodotto e lasciato memoria di pratiche e/o documenti nell’area cristiana. Da parte mia non posso contribuire a questo materiale perché all’epoca la mia distanza degli ambienti cristiani era netta. Ora un tassello, piccolo ma prezioso, è stato ritrovato. Sono voci, volti, sussulti che emergono dal Silenzio.
È innanzi tutto la professione esplicita di una presa di parola quella che, agli albori di questa rivista, alcune donne hanno testimoniato. Scrivere è generalmente un esercizio alieno alle consuetudini di una donna (tranne che nella scrittura diaristica), tant’è che molte scrittrici, all’inizio della loro attività professionale, si sono autodefinite scrittore e non scrittrice. “volevo essere come un uomo” dice per esempio, in un’intervista, Natalia Ginzburg.
Queste donne hanno messo in atto la “pratica politica” del dire di sé e scriverne! Uno dei testi in particolar modo sembra, infatti, il racconto di un’autocoscienza, parola epica, troppo spesso equivocata, per non dire svillaneggiata. Va comunque rilevato che trattasi di fonti del ‘79, quando il tema della “liberazione/oppressione” della donna (come allora si diceva) non solo non era più nella sua stagione aurea dell’autocoscienza, del salario al lavoro domestico, della denuncia degli aborti clandestini e dei festanti cortei colorati, dove le donne usavano alzare le due mani collegando tra loro pollici e indici per provocare il comune senso del pudore (patriarcale) con un simbolo finora “indicibile”. Le questioni delle “lotte femminili e della sessualità” (come allora si diceva, una categoria onnicomprensiva), nell’anno ’79, parevano essersi inabissate, agli occhi della scena mediatica, nel transeunte della Storia. Ma la consapevolezza delle donne cresceva invece nei retrobottega di altri luoghi, con elaborazioni più sofferte, più scavate e più mature.
Le parole d’ordine dei primi anni Settanta - il personale è politico, io sono mia, l’utero è mio e lo gestisco io, ecc., come risuonano in questi scritti?
Passerò in rassegna gli articoli dei bollettini-Esodo del ‘79, e mostrerò alcuni temi: ho selezionato quelli collegati al clima politico e culturale di quegli anni, comprendendo in questo le vicende del mondo cattolico - il Concilio vaticano II in primis - e i venti di antidogmatismo e di collegialità che in quella stagione balzarono sulla scena, come l’occupazione del duomo di Parma.
Esodo n.1, marzo 79. Il numero si apre con un articolo intitolato: «“Esodo” uno strumento per i gruppi cristiani di base». È incentrato poi sul resoconto di un’assemblea di Venezia dell’11 febbraio ’79, con la restituzione dei sottogruppi. A pagina 10 appare il gruppo C: cultura cattolica e famiglia. È lungo due pagine abbondanti. L’autore è collettivo e non ci sono firme, presumibilmente è misto. Non è desumibile quanta autorità le donne esercitassero in tali gruppi. Alla fine del bollettino l’elenco dei nomi di quelli che fanno parte del gruppo di collegamento: 14 persone tra cui 3 donne: Favaretto Mariella, Ligabue Rita, Tonolo Anna.
Le parole chiave qui rintracciate sono:
a) dal punto di vista del metodo:
rigetto di discorsi ideologici, ricchezza del valore delle esperienze personali, del partire da sé (anche se questa espressione non compare), praticare con coerenza la riflessione collettiva e il confronto; critica e ripensare da capo radicale dei modelli culturali, sia quelli della società laica, sia quelli ecclesiastici ereditati; attenzione all’incidenza del genere nei comportamenti.
b) da punto di vista del contenuto:
ragionare d’amore rappresenta un interesse forte, più per le donne che per gli uomini - si dice - le quali tendono a evitare di tematizzare l’argomento. Il legame affettivo è prefigurato e desiderato come rapporto libero, autentico, stabile e duraturo nel tempo, senza per forza essere assoggettato a forme consolidate di convivenza. Anzi, si critica radicalmente la coppia, sia come modello funzionale alla chiesa - poiché essa l’avrebbe usato per sostenere la struttura sociale - sia come modello della società civile. “La chiesa non difende i valori della coppia, ma la struttura sociale che essa rappresenta. Il tema della coppia è stato il più discusso e analizzato, essendo esperienza (presente o passata) di quasi tutti i partecipanti. La società ci impone il modello di coppia. Come gruppo critichiamo tale modello, senza proporne un altro”.
Si osserva poi che la relazione affettiva deve dare la possibilità della realizzazione personale, consentire la ricerca e l’esercizio dell’autonomia di ogni singolo/a, evitando atteggiamenti inclini al possesso e alla gelosia. Si rimane evanescenti sulla questione bruciante dell’esclusività sessuale: se ne accenna come fattore che ha messo in crisi la coppia. Non sarebbe comunque indice d’infedeltà, essendo la fedeltà piuttosto una peculiarità del rapporto autentico. Davvero molto interessante è poi un quesito che alla fine ci si pone, squisitamente “cristiano”, cioè l’interrogativo - rimasto tale- di come la fede possa orientarci rispetto ai contenuti emersi, un interrogativo che ESODO, quarant’anni dopo, ha ripreso in alcuni numeri recenti.
Il numero 2/79 ha, a pagina 5, un lungo articolo intitolato Cristiani e contratti, invito a una lettura profetica. È un documento dei preti operai di Porto Marghera e di credenti militanti nel sindacato: è articolato in una serie di punti. A pag. 8 si scrive: “Tre sono in particolare i settori d’intervento in cui anche la chiesa ha, tra l’altro, un ruolo sociale assai importante”. Il primo punto è: la “condizione della donna”. E si aggiunge: “Fare entrare nell’azione contrattuale la donna, la maternità, i figli, significa porre il problema di una qualità nuova della vita e del lavoro, operando concretamente per una condizione più umana”. È evidente che in queste parole manca l’orizzonte di senso illuminato dalla sensibilità maturata nel mondo delle donne.
Nel numero 3/79, il bollettino presenta un salto di qualità, e infatti nell’editoriale si annunciano intenzioni di riassestamento migliorativo.
Nell’introduzione si accenna a un prossimo incontro dei gruppi di base a Campalto il 28 ottobre 79 sul tema: i Cattolici e l’assistenza oggi. Si enucleano i temi all’O.d.g. Il punto finale - l’assistenza cattolica e il ruolo della donna - così recita: 1. La donna come oggetto dell’assistenza: l’ideologia del sacrificio nell’esperienza della maternità e della vita familiare domestica; 2. La donna come operatrice di assistenza: l’uso delle donne cristiane e degli ordini religiosi femminili nell’assistenza cattolica; 3. Sofferenza e ricerca della felicità: la riflessione del movimento delle donne e l’insegnamento evangelico. Le motivazioni del tema sofferenza, felicità, assistenza sono spiegate nell’articolo successivo scritto da Carlo Bolpin, dove viene messa in discussione la retorica della sofferenza, dalla Chiesa predicata per un’“anticipazione della felicità eterna” ma in realtà strumentalizzata per un “dominio delle coscienze”. Il tema sarà ripreso dalle donne.
Dei lavori del gruppo 4 (esclusivamente femminile), incontratosi nell’assemblea di Campalto, il cui oggetto di elaborazione era: donne sofferenza assistenza, si può leggere il resoconto nel numero del dicembre ‘79, firmato “gruppo donne”. Esso si autopresenta come eterogeneo. “La diversità ci ha stimolato a riconoscerci almeno in parte nelle esperienze delle altre, cercando di superare la propria storia personale, pur tenendola presente, per cogliere i significati profondi che la collegano non solo alle donne di tutti i tempi, ma anche a un’umanità che ha bisogno di trovare la sua essenza nella riconciliazione del femminile con il maschile” (p.17).
Siamo quindi di fronte all’evidenza di un gruppo che, anche se solo episodicamente (non conosco le forme organizzative), propone - o ripropone - la pratica dell’autocoscienza; ne ha ricavato il frutto del riconoscersi l’un l’altra nell’orizzonte di una volontà progettuale politica, cogliendo - attraverso l’affiorare della specificità femminile - significati profondi del proprio essere donna nella storia e nel mondo. L’enunciato finale, riconciliazione maschile/femminile, in questo contesto, rivela ai miei occhi i tratti di una sollecitudine inquieta; parole che rattoppano il sospetto di eventuali strappi di quell’immagine “materna e soccorrevole” cui una donna deve aderire.
Poco sotto si continua: “Il confronto è partito da considerazioni di ordine generale per specificarsi poi sempre meglio attraverso i vari interventi. Abbiamo costatato che la sofferenza è uno stato personale e collettivo della donna: personale perché ogni donna vive la sofferenza fisica e morale nella sua realtà; collettivo, perché tutte le donne, coscienti o non, subiscono dalla società la violenza di essere relegate in determinati ruoli”.
Alla domanda cruciale in special modo in un contesto religioso: la donna avrebbe una particolare propensione naturale a soccorrere chi soffre? Si risponde con determinazione: “Siamo state unanimi, o quasi, nel rispondere che l’essere uomini o donne ha comportato dei ruoli fissati dalla società, ruoli che non hanno rispettato le vere esigenze dei due sessi; perciò, se da una parte riconosciamo che esistono delle differenze, dall’altra ci rendiamo conto che esse sono state strumentalizzate a nostro discapito”. E ancora: “… proprio nel momento in cui prendiamo coscienza di tutto questo, siamo in uno stato di profonda sofferenza. Lo siamo noi, donne di adesso, come lo erano le nostre madri, le nostre nonne che però non avevano davanti a loro nessuna alternativa”.
Poi, con una virata, trovo scritto: “Il lavoro: è stato un altro punto fondamentale ecc.”.
L’analisi collettiva precedente, di così alta intensità - emotiva e concettuale- viene dunque terminata improvvisamente - ahimè. La Sofferenza ne era il cuore: cosa è avvenuto? Sembra che il sentire abbia prevalso sul dire, e la sofferenza da pensata, si sia trasformata in patita. Quando il dolore delle esistenze negate alle nostre madri (morte?) intacca le viscere e supera la soglia della dicibilità, è bene retrocedere.
Dunque, il più addomesticabile argomento del Lavoro ha preso lo scettro del discorso: “Se abbiamo riconosciuto che la donna è discriminata nell’ambiente di lavoro, sia per il tipo di lavoro che è chiamata a fare (maestra, infermiera, donna di servizio ecc. sia per la difficoltà di conciliare l’attività con i compiti domestici, abbiamo nello stesso tempo ribadito che oggi la liberazione della donna passa necessariamente attraverso il lavoro. È proprio nel lavoro che ognuna prende coscienza di sé e soprattutto dello sfruttamento che opera la società nei suoi confronti”. Si sorvola inspiegabilmente sul tema del lavoro domestico. Si prosegue con una riflessione sul lavoro in ambito sanitario-assistenziale, che non contiene nulla, a mio avviso, di rilevante per questa indagine. Segue un’affermazione radiosa, in cui si sprigiona il desiderio di “costruire un mondo diverso, in cui la gioia possa diventare patrimonio comune”. Fa seguito l’incitamento a “cercare nuovi valori: la realizzazione personale, la lotta, la discussione, anche uno scontro, se ci permette di esprimere, rivendicare, comunicare il nostro modo di essere, può essere motivo di felicità. Certo ci vorrà un passaggio intermedio, un passaggio di infelicità per scoprire queste nuove cose, soprattutto per spogliarci di tutti i valori negativi”.
Avete sentito bene, lettrici e lettori di Esodo. Nel 1979 nel bollettino che porta questo nome, un drappello di donne cristiane infiammava i cuori spronando alla lotta e alla realizzazione personale, indicandoli come valori. L’esortazione non va strumentalmente equivocata: va letta e interpretata in questo contesto discorsivo, non in assoluto!
Complimenti a tali donne che sarebbe bello rincontrare… un filo rosso ci lega!
Esodo n. 2/2018 40 anni di Esodo… ancora in cammino…, pp. 25-29
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