di Beppe Bovo
La prendo larga e inizio con una citazione che mi diverte molto. “Eleganza, purezza e misura, che erano i principi della nostra arte, si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi,
dal talento superficiale, hanno adottato. Cervelli che, per educazione e abitudine, non riescono a pensare a qualcosa d’altro che i vestiti, la moda, il gossip, la lettura di romanzi e la dissipazione morale, fanno fatica a provare i piaceri, più elaborati e meno febbrili, della scienza e dell’arte. B. scrive per questi cervelli, e in questo pare che abbia un certo successo, se devo credere agli elogi che, da ogni parte, sento fiorire per questo suo ultimo lavoro.”
Anno in cui fu concepita e scritta questa osservazione: 1825. Autore: un critico musicale che pubblica in un’autorevole rivista il “The Quarterly Musical Magazine”. Su chi sia il B. che scrive per questi cervelli deboli e quale sia il suo ultimo lavoro che riscuote questo “certo successo” mantengo per qualche riga la suspence. Sottolineo invece come vengano inquadrati con spregiudicata chiarezza e sicumera due ambiti di confronto: il mondo (maschile) dell’eleganza, della purezza e dell’armonia e quello (effeminato e femminile) della frivolezza, delle persone che “non riescono a pensare a qualcosa d’altro che i vestiti, la moda, il gossip, la lettura di romanzi”. La lettura dei romanzi! Curioso: leggere romanzi equivale a sentimentalismo spurio, frivolezza, roba da e di donnicciole. Altri tempi, sì certo, ma forse non così lontani come i duecento anni che il calendario ci dice. Traspare un’idea di società che , in modo sicuramente meno smaccato,si respirava quando io portavo i calzoni corti e scandalizzava ben pochi. Credo che chi è più o meno della mia età lo possa confermare. E poi, siamo sicuri che oggi di tutto questo sentire “maschile”, nel fondo nascosto della nostra società, non sia rimasto niente?
Intanto, chi è B. e di che suo lavoro si parla? In ordine: B. è Beethoven, e quel suo lavoro è la Sinfonia opera 125 in Re min. detta “la Nona”! Il commento del nostro acuto critico è stato scritto in occasione della prima esecuzione a Londra della sinfonia.
Cosa c’entri questo con quello che sto per dire non lo so bene, ma – sembrerà strano – mi sembra che qualcosa c’entri. Vedremo.
Non ero più giovanissimo (anche se, a guardarmi ora con gli occhi di uno che non aspetta più i settanta, ero davvero giovane) e avevo la testa imbottita di studi classici e di letture altrettanto “classiche”. Mi imbattei un girono nello scritto di una scrittrice che cominciavo a conoscere e ne rimasi colpito. Da cosa? A dirlo ora c’è quasi da vergognarsene ma allora fu proprio così: lo sentii come qualcosa di insolito, vi trovai un ragionare coerente, forte, lucido, complesso che mi stupì; un’indipendenza e un rigore singolari, un argomentare ben strutturato e sicuro, come – ecco la bomba! – come mi sembrava inconsueto in una donna, o forse tipico di un uomo. Insomma, che fosse una donna e non un uomo a scriverlo mi meravigliava molto.
Pensavo dunque che le donne ne fossero incapaci? Non credo che questo fosse precisamente il mio pensiero. Piuttosto nella realtà quotidiana avevo conosciuto molti uomini in grado di articolare un discorso con quelle caratteristiche e “sapevo” che le donne erano romantiche, emotive, generose, appassionate, ecc. ecc. Altri ragionamenti sulla differenza di genere non ne avevo fatti, niente e nessuno mi aveva portato a farli: gli uomini erano uomini e le donne erano donne e tanto bastava, almeno nell’ambiente in cui vivevo. Non mi ero ancora imbattuto in un qualche discorso di genere e non avevo trovato nessun uomo che – pure innamorato, rispettoso, ammirato delle donne, estimatore senza riserve della loro disponibilità e generosità e capacità di sacrificio ecc. ecc. - mi avesse aperto a una realtà “altra”. E ho il legittimo sospetto che ognuno degli amici, coetanei, (sessantottini rivoluzionari, lottacontinuisti e servitori del popolo, fan di Guccini, Dylan, Pink Floyd, ecc. ecc.) che frequentavo ne sarebbero stati sorpresi come lo ero stato io. La differenza sessuale era definita da canoni e categorie precisi, nella sostanza fuori discussione: il problema delle differenze sessuali lo avrebbe risolto la rivoluzione. Del resto l’idea era: si tratta di un terreno conosciuto, conosciutissimo, dai confini precisi, ben recintati, protetti e difesi da dure corazze. Poche contestazioni ogni tanto dal mondo femminile erano prese come piccoli sussulti dentro il perbenismo imperante, commentate con sufficienza e magari un po’ di pruederie. Quindi: nessuna o scarsissime possibilità di una qualche “rivelazione” capace di scalfire una crosta ben solida e mettere in discussione un po’ di cose o tantissime.
Risultato: quando comunicai a qualche amico fidato quel mio stupore, questo suscitò a sua volta un altrettanto stupore ma non per il fatto che, “intellettualmente”, una donna si ponesse con tanta autorevolezza in un ambito tradizionalmente maschile, ma nei miei confronti. Venivo guardato con una faccia stranamente interrogativa. A me sembra, avrei voluto dire sommessamente, che qualcosa del mio-nostro modo di pensare doveva in qualche modo essere rivisto o qualcosa di simile ma non era facile non dico argomentare ma neppure fissare in parole questo embrione di pensiero sorpreso da una novità che sembrava fosse tale solo a me.
(Magari qualche maschio oggi dirà che ero molto, ma molto indietro, che frequentavo davvero gente poco engagè e magari ha anche ragione… Mi piacerebbe comunque conoscere quale sia stato il suo primo stupore di fronte alla sua individuale scoperta di questa strepitosa novità che incominciava a riempire di sé la nostra Italia...)
Ovvio, del tutto diversa fu la reazione (e oggetto di tutt’altra sorpresa) di un’amica alla quale raccontai la mia “esperienza”. “Ma che stai dicendo? Ma pensi davvero quello che dici?”
Con tutta evidenza la mia sincerità non era stata apprezzata! E l’indignazione e il disprezzo appena mitigato dall’amicizia che vidi nei suoi occhi li ricordo ancora piuttosto bene. Ovviamente, non affrontai più la questione o altre simili con nessuno né con nessuna e per molto tempo.
Questo fu il mio primo approccio, decisamente poco felice, con il problema della diversità femminile nella società in cui mi trovavo a vivere. Comunque quelle contrastanti sorprese restarono dentro di me a trapanarmi.
Da allora sono passate molte acque sotto i ponti e altre sorprese di quel tipo mi colpirono, alcune accolte con piacere altre come schiaffi in piena faccia. Comunque, il fatto era che il tema continuai a sentirlo un po’ come non centrale al mio stare nel mondo, un po’ non lo trovavo convincente per come era proposto, un po’ anche mi infastidiva: sentivo disagio più che comprensione. Sono passati tanto tempo e tanta storia, personale-collettiva-umana, e penso sia giusto oggi, guardarmi dentro (armandomi di un po’ di coraggio) e chiedermi quanto di tutto questo movimento sia diventato patrimonio personale, elemento di maturazione.
Insomma: cosa ho imparato dal confronto, (a volte cercato a volte – spesso – capitatomi addosso e, comunque, ogni volta capace di rimescolarmi dentro), con il mondo femminile e con quel suo modo deciso e nuovo di porsi nei confronti della realtà e di me/noi maschi.
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I miei studi di filosofia – non moltissimi ma fatti con un forte coinvolgimento - hanno influenzato parecchio il mio modo di guardare il mondo. Aristotele l’ho sentito presente per molto tempo, Cartesio meno anche se ho l’impressione che nel sottofondo abbia pesato non poco. La conoscenza è il frutto di un corretto ragionare. L’uomo, sostanza pensante, raggiunge la realtà procedendo per idee chiare e distinte. Spostare un simile angolo di visuale non è stato facile.
Lentamente, la vita, l’azione e la riflessione su quanto vedevo e sperimentavo nelle situazioni e nelle esperienze le più diverse mi ha portato a una convinzione nuova. E cioè che la conoscenza fosse più di un semplice e giusto ragionare, che fosse un’operazione che doveva vedere coinvolti assieme all’intelletto anche quella parte di me legata ai sentimenti: ragione ed emotività, universalità ed individualità devono camminare insieme. E mentre andavo accorgendomi che l’astrattezza del pensiero era troppo fredda e sempre meno capace di dire qualcosa che avesse il sapore del reale, che mi mettesse in contatto con quello che normalmente chiamiamo vita, mi imbattevo in esperienze (vissute, raccontate, scritte) tutte al femminile che mi portavano a dedurre che la conoscenza è una questione di tutta la persona, di ragione e sentimenti, di capacità di astrazione strettamente legata alla capacità di ascoltare le sensazioni, di dare peso a quello che vedevo, che toccavo, che sentivo. Quello di cui andavo sempre più convincendomi, sostenuto e incoraggiato dal pensiero femminile, era che il pensiero doveva nascere e radicarsi nella concretezza dell’esperienza diretta, non nell’astrattezza del generale ma nella concretezza del particolare .
Ho cominciato sempre più a vedere la Storia (S maiuscola) e le semplici-grandi storie di ognuno di noi come un tutt’uno difficile da separare, torrenti che si agitano tumultuosi e che vanno a riversarsi in un mare altrettanto tormentato. E vedevo che c’era chi si ritraeva e stava ( o faceva di tutto per stare) sulla riva ad osservare questo muoversi caotico e vitale, a studiarlo e a dargli un senso e una ragionevolezza generale e c’era chi ci si tuffava, volontariamente o perché ci era trascinato dentro contro volontà, e comunque, mentre lo viveva fino in fondo e combatteva, cercava di capirlo e di dargli un senso. Mi accorgevo (prima quasi non li vedevo) di pensatori che praticavano e teorizzavano quell’atteggiamento di superiore e saggia posizione di “terzietà”: una mente lucida e distaccata che teorizzava un simile atteggiamento come l’unico capace di vedere, valutare e dare un senso garantendo l’oggettività della conoscenza che veniva acquisendo.
La cosa a me tornava sempre meno. Che me ne facevo di un’oggettività talmente snaturata ed esangue da restituirmi la vitalità di una statua?
Come spesso accade, una cosa la vedi davvero solo quando riesci a dargli un nome. E il nome - la sintesi felice, piena – di questa necessità di una conoscenza più completa e umana l’ho trovata nell’esperienza e nei comportamenti e poi nell’idea tradotta parola di una ragazza olandese di 29 anni. Nel 1942, in un Quaderno del suo Diario ha scritto:
“ Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne e ragazze che […] dicevano così spesso durante il giorno:”non vogliamo pensare” […] io pensavo: “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca.” Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento.”[1]
Una donna incredibile, Etty Hillesum, nell’assurdo di una situazione assolutamente tragica e assolutamente disperata, contro ogni ragionevolezza vuole ragionare. E vuole farlo nella modalità più difficile e straziante ma più vicina alla realtà: col cuore. Per la mia personalissima maturazione umana, questa esperienza accompagnata e sostenuta da un pensare coerente e lucido ed emozionato[2] sono stati il sigillo di un mio nuovo modo di vedere la realtà e la vita.
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Mio padre lavorava sodo, faticava da mattina a sera, non faceva ferie né riposi settimanali, nel suo tempo libero lavorava a casa o da parenti e conoscenti che richiedevano la sua opera. Per me aveva una sola aspirazione che non perdeva occasione per ribadirmi: che studiassi, che non dovessi fare la vita dura che faceva lui. E io cercavo libri, studiavo, leggevo, e ascoltavo chi mi forniva conoscenze e imparavo: bevevo con avidità tutta l’acqua che riuscivo a trovare. Una grande quantità di conoscenze e di elaborazioni, tutta roba utile, utilissima ma fredda, roba di altri, parole scritte pensate da altri di cui mi nutrivo con grande, eccessiva facilità, voracemente, senza concedermi il tempo che serve (a volte tanto!) per digerirle, farle diventare mie. Insomma, a formarmi è stato un sapere frutto di un’esperienza non mia, “indifferente” al mio quotidiano, che non si combinava con la’esperienza mia di ogni giorno per il semplice fatto che l’avevo acquisita[3]. Occorreva dell’altro lavoro, un intervento che solo io potevo garantire. E a questo punto l’esempio che mi veniva, concreto pratico dal mondo delle donne, mi fu prezioso.
Buona parte del mondo femminile con il quale più o meno direttamente sono venuto a contatto (parlo delle donne che ho avute vicine nei miei giorni, alcune anche molto semplici e ben poco acculturate, persone concrete, ricche di attenzione per la realtà e di amore per il mondo ben prima delle grandi figure femminili che hanno pensato e scritto) mi hanno fatto capire – non con parole o ragionamenti ma con il loro modo di guardare e di affrontare le situazioni della vita qualcosa di davvero importante. A dirlo ora, a scriverlo tranquillo seduto a una scrivania, sembra l’uovo di Colombo, una cosa del tutto scontata che farebbe esclamare: cosa ci voleva a capirlo! Sarà anche così, ma per quanto mi riguarda le cose della vita le ho sempre imparate un po’ alla volta, con molta lentezza. E allora ecco cosa ho imparato: che nelle donne che avevo accanto (e quindi tenderei a supporre nelle donne in generale – sbaglio?) referente del pensare , dell’attività intellettuale non erano/sono in prima istanza le elaborazioni che si trovano nei libri, le categorie mentali acquisite “a freddo”, gli apparati del linguaggio che esercitano un’autorità categorica, sostanzialmente generale ed estranea a chi legge, ma è il mondo di cui si fa ad ogni momento esperienza, in cui ci si trova a vivere con le sue imprevedibilità, difficoltà, con la concreta realtà che in ogni istante colpisce - ineluttabile necessaria - e ci mette in discussione, ci costringe a prenderne atto, a capire, a trovarne un senso.
Non sono contro i libri, ovviamente, (piuttosto ho alcune riserve sul modo di servirsene) e del resto non mancano libri in cui assieme alla profondità di pensiero si sente un vivo calore umano[4]. A leggere la Hillesum, la Arendt, la Woolf, la Blixen (cito quasi a caso, un elenco in qualche modo ragionato sarebbe davvero lungo) ognuna con la sua specifica personalità e la personale capacità di leggere e di dire, si coglie subito chiaro il rapporto che ognuna intrattiene con se stessa, con il luogo in cui si trova a vivere, con l’epoca e il momento, in ognuna si sente quanto tutto questo impegni direttamente e prioritariamente la sua personale esperienza, quanto sia lì, dentro al suo particolarissimo mondo, con tutta se stessa, una persona che vive un tempo e un luogo, con corpo e anima. Un pensiero che non generalizza mai, che esiste solo nel momento in cui è esperienza, che nasce nel vivere reale di una persona reale. Certo anche di qualche maschio che scrive si può dire la stessa cosa, ma non di molti; di altri, tanti altri si dovrebbe far notare atteggiamenti ed elaborazioni di ben diversa natura[5].
La mia esperienza (politica, sociale, associativa oltre che, beninteso, privata) mi ha fatto vedere come le donne tollerino ben poco le generalizzazioni, come siano istintivamente diffidenti rispetto a considerazioni e/o valutazioni eccessivamente “alte”, troppo staccate dalla concretezza del quotidiano, come diffidino di un allontanarsi eccessivo, peggio spericolato (cosa che io ma vorrei dire noi facciamo spesso) dalla quotidianità, ancorate a un vedere/sentire comune, a un’esperienza “calda” (vorrei dire emotiva se non temessi di essere frainteso) di vita. Quante volte io (noi?) abbiamo ritenuto che una lettura corretta della realtà presupponesse un distacco emotivo, quasi un “fuori di sé”, un punto di vista dall’esterno, convinti dell’utilità di un pensare come un guardarsi vivere piuttosto che un pensare mentre si vive, dentro al proprio vivere? De Andrè in “Anime salve” sembra cogliere questo atteggiamento quando, subito dopo aver cantato:
Che bell'inganno sei anima mia
aggiunge:
“…mi sono visto che ridevo
mi sono visto di spalle che partivo.”
Come facilmente ci facciamo ingannare, soprattutto noi maschi, come facilmente inganniamo noi stessi pensandoci fuori di noi stessi.
*
I linguaggi costruiscono sistemi, creano mondi che danno l’illusione di essere oggettivi, giusti, veri. I linguaggi hanno un peso strepitoso nel nostro vivere, possono essere subdoli e tremendi (subdoli perché agiscono senza che ce se ne accorga; tremendi perché agiscono con una forza incredibile) e possono essere onesti e veritieri, perché parlano alle persone per farsi capire e aiutare il confronto. Sono sistemi “facili”, che si costruiscono con poco (in genere non richiedono risorse economiche né fatica fisica: bastano parole) e che velocemente invadono teste e cuori, istituzioni e gruppi, e da ognuna di queste roccaforti possono venire sradicati con gran difficoltà e tempi lunghi. Questo le donne lo hanno capito perfettamente e contro un sistema costruito su un linguaggio infido e punitivo nei loro confronti si battono da tempo e in vari modi. Tra i più efficaci, dal mio punto di vista, c’è la scrittura.
Le donne scrivono, fanno letteratura, poesia, e oggi sono davvero in tante a farlo (stilare una lista delle scrittrici con una minima speranza di essere esaustivi è molto difficile). E scrivono con efficacia e consapevolezza, alcune con esiti davvero eccezionali. Un giorno mi divertirò a fare la mia personalissima lista e a metterle in ordine di importanza e di “peso” letterario, e già so chi metterò all’inizio della lista, la più grande sotto ogni punto di vista, quella che può a testa ben alta competere con chiunque, scrittrici e scrittori del ‘900: Virginia Woolf.
Con questo non mi schiero a fianco di chi è convinto che ci sia una letteratura femminile oltre (e magari contrapposta) a una maschile. Il mio parere – per quanto può valere – è che esista una e una sola letteratura come una e una sola poesia e che maschi e femmine se la giochino senza nessuna sostanziale differenza entro questo unico, grande, ricco terreno di gioco. Del resto era Virginia Woolf ad augurarsi una riconciliazione fra la parte femminile e la parte maschile nella mente androgina dell’artista. E però credo che si possa riscontrare a volte nella scrittura femminile una sensibilità diversa, che affiora e che dà un tocco nuovo, più vero a situazioni, caratteri, storie raccontate da donne. Forse ce ne accorgiamo solo noi che siamo cresciuti confrontandoci con un mondo letterario marcatamente maschile; forse già i nostri figli e ancor di più domani i nostri nipoti non se ne accorgeranno, ma a noi alcune “differenze” balzano all’occhio. Un esempio mi gira per la testa e preme perché lo proponga. Eccolo.
È Karen Blixen che, ne “La mia Africa”, fa la sua nostalgica dichiarazione d’amore per quel mondo:
” Ora io sono una canzone dell’Africa, una canzone della giraffa e della luna nuova sdraiata sul dorso, dell’aratro nei campi e dei visi sudati degli uomini che raccoglievano il caffè - ma sa l’Africa una canzone che parla di me? Vibra nell’aria della pianura il barlume di un colore che io ho portato, c’è fra i giochi dei bambini un gioco che abbia il mio nome, proietta la luna piena, sulla ghiaia del viale, un’ombra che mi somiglia, vanno in cerca di me le aquile del Ngong?”
Posso pensare che nessun scrittore maschio avrebbe potuto scrivere qualcosa di simile con tanta immediatezza e partecipazione, sincerità e semplicità? Emozionata e però senza un filo di retorica!
Sarebbe bello fare un raffronto ragionato di alcuni incipit di opere che hanno segnato la sensibilità delle generazioni degli ultimi 100 anni e oltre. Tutti ricordano l’incipit di Anna Karenina, una fulminante osservazione sulla felicità e l’infelicità delle famiglie o quello di “Moby Dick” dove il protagonista perentoriamente afferma se stesso attraverso la semplice pronuncia del proprio nome o ancora quello di “Cento anni di solitudine”: in tre righe, di fronte al plotone di esecuzione, Aureliano Buendia, eroe sfortunato di Macondo, fonde in un unico ricordo il suo futuro e il suo passato.
Tutti incipit davvero efficaci, tecnicamente perfetti, visoni ampie, tutte a loro modo eroiche, quasi titaniche perché così deve stare l’uomo nell’avventura del mondo.
Leggiamo invece questo:
“La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata lei a comperarli. Lucy aveva già il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi, pensò Clarissa Dalloway, che mattinata! … limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia.” [6]
È Virginia Woolf che scrive. Tanta leggerezza, incanto, colore, come una farfalla che volteggia ineffabile sul giorno, chi era mai riuscito a concentrarla in così poche parole, in un incipit? Tecnicamente perfetto, ma quotidiano, reale, famigliare (il fioraio, i cardini delle porte, gli operai!) e però di una intensità poetica incredibile! E comunque anche di una precisione senza compromessi: qui c’è una concezione di vita, un modo di vedere la realtà, un mondo ben preciso dove le circostanze anche minime conferiscono carattere specifico a un pensiero, a una situazione, alla vita. Sono i particolari, le piccole cose di una giornata a incardinare un pensiero alla vita, a rendere esplicita la sua specificità, a farsi specchio della realtà impedendogli di assolutizzarsi. Questo sanno fare le donne con grande perizia, con leggerezza.
Le donne che scrivono a me hanno insegnato a prendere le emozioni e i sentimenti come indicatori di realtà, e ancora mi hanno insegnato la leggerezza, la cosa più preziosa e più difficile.
E magari l’avessi imparata!
*
Un giorno mi sono accorto che, più o meno consciamente e quasi obbedendo a una specie di istinto di autoconservazione, di risparmio di energie avevo deciso fino a che punto essere disponibile ad accogliere, ad accettare, a mettermi nella disposizione d’animo di capire persone o idee o sentimenti: realtà. Quello che stava più in là di quel confine ideale ma ferreo che mi ero posto non lo vedevo, non lo sentivo: per me non esisteva.
Ancora una donna, ancora Etty con la sua quotidianità raccontata nei Quaderni con sincerità estrema, non tanto nei dettagli ma nei suoi movimenti interiori, mi ha fatto vedere questo mio meccanismo interiore che poteva avere effetti micidiali. Lei diceva a se stessa che doveva imparare a fare spazio dentro e ne fece davvero tanto, lo fece davvero con tanti, fino a farvi entrare i soldati tedeschi che ridevano davanti al treno in partenza per Auschwitz e l’ebreo che nel campo di Westerbork angariava adulti e bambini disgraziati come lui, fino ad includere il comandante nazista del campo “un gentleman che ama la musica”, o gli invasori nazisti dell’Olanda che imprigionavano, torturavano, ammazzavano i suoi amici. Hitler non lo nomina mai ma credo lo si possa pensare presente quando scrive: “è il momento di mettere in pratica il detto: ama i tuoi nemici. E se lo diciamo noi, bisognerà pur credere che sia possibile”[7].
Fare spazio a qualcuno per Etty significava farlo entrare nel suo mondo, permettergli di muoversi liberamente, di essere se stesso fino in fondo portando i suoi problemi, i suoi punti di vista, evidenziando contraddizioni, mettendo in discussione il suo ordine. Esperienza forte, forse devastante, per la quale occorreva attrezzarsi, ridefinire continuamente valori, cercare risposte nuove e allora (solo allora, spinta da questa urgenza) leggere (Jung, il buon Matteo” l’evangelista, , sant’Agostino i buddisti e ancora Rilke ed Eckhart e sempre la Bibbia), e allora scrivere, “scrivere le cose come la vita le ha scritte per me, in caratteri viventi.”[8]
È questo che mi ha insegnato la ragazza coraggiosa d’Olanda, questa esperienza interiore rivoluzionaria di fare spazio dentro di me e di farlo con questo metodo. E ho sperimentato quanto sia difficile.
Mi avevano insegnato a controllare arrivi e presenze, a diffidare delle sorprese, a essere ordinato dentro per non sprecare tempo, occasioni, energie. Il mito delle idee chiare e distinte mi aveva fatto obbligo di ospitare solo quanto presentava quelle indiscutibili caratteristiche. E così sono cresciuto geloso del mio spazio interiore, del mio ordine metodicamente controllato. Del resto la razionalità romana era lì a dirmelo con la sua proverbiale perentorietà: serba ordinem et ordo servabit te. Il mio sforzo era quello di dotarmi di una casa ben costruita, organizzata e ordinata con cura, frequentata da persone che conoscevo bene e con le quali condividevo valori e speranze. Quando misi in discussione tutta questa impostazione, mi accorsi - e fu scioccante - che persone a vario modo care e con le quali avevo rapporti da anni di fatto non le avevo davvero accolte dentro il mio spazio interiore, le tenevo incredibilmente ancora sulla porta. Oggi mi sforzo di abitare un villaggio collocato in uno spazio ampio, facilmente raggiungibile da strade diverse, non difeso da mura ma circondato da prati, ospitale verso chi vuole venire e piantare la sua tenda accanto alla mia e a quella degli altri e con questi scambiare esperienze e idee senza paure.
Non è facile. A fare spazio davvero, ad accogliere non idee astratte scarsamente impegnative ma persone che vivono, anima e corpo, un luogo e un tempo precisi, è molto, molto impegnativo. Io/noi maschi tendiamo a viverlo come un rischio da evitare accuratamente. Sono le donne a dirci che non è pericoloso ma piuttosto utile, prezioso da sperimentare. Salvifico.
*
Breve commiato per i tre lettori che hanno avuto l’eroica pazienza di arrivare fin qui.
La differenza di genere è un valore imprescindibile che ha bisogno di essere definito, messo a fuoco, diventare lievito vivo prima di tutto per ognuno di noi e poi per la nostra convivenza. Dobbiamo capirla, definirla, renderla parola e azione senza risentimenti nè atteggiamenti di superiorità.
Occorre scavare e tirare fuori lo specifico del nostro essere persone, dare identità e nome alle nostre migliori attitudini, (essere capaci di ideali alti, costruire ponti, rileggere il mondo, dare senso alla realtà, produrre cultura, fare letteratura, poesia, Politica). Dobbiamo lavorare assieme, uomini e donne, dobbiamo assieme costruire un mondo nuovo dopo che gli uomini arroganti al comando e le donne sottomesse al focolare ci hanno portato a questo mondo che ci piace sempre meno.
La nostra tradizione, la nostra educazione hanno costruito valori che ormai da decenni sono in crisi perché forgiati da un pensiero unico che ha reso tutti meno liberi e meno aperti. Ricostruire tutto partendo da un pensiero duale.
A me sembra di vedere una tendenza in casa maschile. Sia pure in buona fede, più o meno spesso sposiamo tesi, facciamo nostre acriticamente posizioni che nascono e vengono portate avanti dal mondo femminile e/o femminista.
Non si tratta di dire: “Le donne hanno ragione”. Loro costruiscono – con o senza di noi - la loro strada, fanno i loro sbagli, conquistano le loro posizioni. Quello che noi dovremmo fare – e ancora non facciamo – è agire come loro: costruire un nostro mondo nuovo. Perché il nostro nel quale siamo nati e vissuti è più o meno un rottame, spesso anche pericoloso per noi e per loro. Perché se non ne costruiamo uno di nuovo andrà male per noi e per loro, per tutti. Come andrà male per loro, per noi, per tutti se fallisse la loro ricerca e il loro lavoro di costruzione. Ma questo mi sembra proprio che non succederà.
Marzo 2021
[1] Molti oggi e in molte situazioni usano questa incredibile sintesi-programma di presenza e conoscenza della realtà in cui si è chiamati a vivere, questa necessità di essere mente e cuore inscindibilmente presenti e attivi per capire la realtà. E questi molti la usano senza sapere, ne sono del tutto convinto, che fu questa “strana” ragazza olandese - Etty Hillesum - a viverla-scriverla, non in una normale quotidianità ma nella più assurda e tragica delle situazioni che siano state date nel XX secolo. Non sanno quindi come questa intuizione, per vari aspetti rivoluzionaria proprio nel modo di conoscere e vivere la realtà, sia il frutto prezioso della mente e della sensibilità femminile, concepito e praticato con eroica coerenza e con una davvero estrema lucidità.
[2] Certo Etty Hillesum non è una filosofa; non ne aveva né la formazione, né il tempo necessario per farlo ma soprattutto non ne aveva l’intenzione. Lei voleva vivere, lei amava la vita in ogni situazione, voleva fare la scrittrice: il suo pensiero non ha niente di sistematico. Le sue si potrebbero dire una lunga serie di illuminazioni, che coinvolgono e insegnano, mi sembra, più di un insieme ben ordinato e approfondito di pensieri.
[3] Sono rimasto scioccato, quando venni a sapere – era pressappoco negli anni della sorpresa di cui sopra - della grande cultura umanistica di Himmler, dello spiccato senso estetico di Goering! Dunque, la cultura neppure la cultura, da sola, ci preserva dalla barbarie sempre in agguato.
[4] D’altra parte ho appena detto della pagina del Diario di Etty Hillesum e aggiungo che in questo sentire le testimonianze proposte in modo più o meno diretto dal mondo femminile è in prima fila.
[5] Per quanto mi riguarda, di questi faccio sempre più fatica a leggere un libro fino alla fine; anzi a superare le prime 20 pagine…
[6] Virginia Woolf, “Mrs. Dalloway” , 1925.
[7] Diario, 25.7.1942
[8] Diario, 22.9.42