di don Angelo Casati
Perché d’estate? Non so rispondere. Ma ho come la sensazione che la violenza sulle donne, che già invade di sé tutti i mesi dell’anno, dilaghi ancor più e gridi, urli, in modo impietoso, all’avvicinarsi dell’estate.
Sfogli il giornale, ascolti i notiziari, è stillicidio infinito. Non c’è giorno di pace per loro. È un’altra guerra. Degli uomini contro le donne. Nel territorio tenero dell’anima e del corpo. Guerra di ogni giorno, un pane amaro, pane quotidiano.
Leggo, ascolto. Si raccontano gli abusi a cielo aperto. Ma chi racconta degli abusi, ben più numerosi e accuratamente coperti di silenzio, raramente manifesti, che avvengono all’ombra nascosta delle case, dentro le pareti domestiche, all’interno delle famiglie?
Leggo, ascolto. A tal punto mi si sfonda il cuore che, quando mi avviene di attraversare di notte le strade buie della mia città, a volte mi sorprendo, come se mi venisse da lontano un grido, uno straziante grido d’aiuto. Di donna.
Sento l’amarezza per una società che si riempie la bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne e, davanti al grido, all’urlo degli stupri, altro sembra non sappia fare se non invocare misure repressive, senza mai o quasi mai aggredire il male alle radici. Strano indecoroso fariseismo di una società che non insorge contro una mentalità, ampiamente, supinamente sposata, che è il vero bacino di coltura dei fenomeni che stanno sotto i nostri occhi.
Educare al volto dell’altro, ai sentimenti, alla tenerezza, al rispetto sempre e comunque, in un mondo che celebra il primato dell’io arrogante e prevaricatore, sembra ormai arte improponibile, da cancellare dai codici, strumenti vecchi, fuori uso, arrugginiti dal tempo.
Oggi si fa scempio - e nemmeno ci si rende conto, tanto si è ubriachi della propria immagine - dei sentimenti, incuranti delle ferite, quasi il volto fosse terra di nessuno. Da invadere e calpestare.
E l’esempio, cattivo esempio, viene dal-l’alto. Parole che dissacrano mistero e dignità delle donne, parole volgari che feriscono a volte femminilità e dignità anche delle persone più care, parole in assenza di pudore, pronunciate con fare accattivante. E nessuno che insorga, nessuno che gridi indignazione per una dignità ferita, per una femminilità che chiede di essere sfiorata onorando, accarezzando. Con mani quasi sorprese da mistero. Anche qui invece è in voga, e tristemente, l’invasione, l’occupazione, lo sfruttamento. Di corpi e di anime.
Da “prete minore” quale sono, soffro lo scarto tra le parole e la realtà, tra le proclamazioni di principio, che costano meno di un briciolo di voce, e la realtà, così desolatamente triste e lontana. Questa società, a mio avviso, ha un debito nei confronti della donna. Ha molto da farsi perdonare. Ancora. Questa chiesa, anche, ha un debito nei confronti della donna, ha molto da farsi perdonare. Purtroppo. Ancora. Vedo. E soffro la distanza. La distanza tra la Parola, quella di Dio e la condizione della donna nella chiesa. Tra le parole, le molte parole della chiesa sulla donna, e la sua reale condizione all’interno della chiesa. Vedo. E soffro la distanza.
Le donne amiche. Di tanto in tanto le accarezzo con lo sguardo. Le sento defraudate, come se nella chiesa non fossero stimate né amate per quello che sono. Al di là delle proclamazioni. E soffro del ritardo. Ritardo di stima, di affetto, di riconoscimento. Il recupero, ognuno lo vede, è lento. E a volte ambiguo. Vedo. E soffro l’ambiguità.
È diventato luogo comune dire che le donne hanno spazio nella comunità ecclesiale, che delle donne oggi sono piene le chiese. Ci si dovrebbe però chiedere se la presenza sia prevista sì, ma prevista per lo più per una funzione di servizio e di conservazione.
Di tanto in tanto le guardo e la mente mi corre alla casa di Betania, alla lezione dimenticata di quella casa, dove il Rabbi di Nazaret non sopporta che una delle sorelle, Marta, sia confinata e impoverita in un ruolo di servizio, nel ruolo di donna affaccendata: “tu” sembra dirle “sei molto di più: tu, come tua sorella, puoi stare con me in una relazione diversa, in una relazione di scambio interiore, e non primariamente in una relazione di scambio di servizi. Tu sei molto di più, tu puoi condividere con me pensieri, orizzonti, e sogni”. Vi immaginate che cosa succederebbe nella chiesa se papi, vescovi e preti chiamassero le donne a condividere pensieri, orizzonti e sogni?
Vedo e soffro. Soffro la distanza, in una chiesa dove il pensare e il decidere è riservato ai maschi e, contrariamente alla lezione del Maestro, le donne sono chiamate ad eseguire. Si pensa e si decide nelle stanze alte. Là non c’è spazio, nemmeno nell’immaginario, per un sedere alla pari, donne e uomini mescolati. Mescola sacra sarebbe, perché evangelica.
Da dove nascono i pronunciamenti, i documenti, gli orientamenti, i piani pastorali? Da dove vengono se non da un mondo maschile? E respirando fin dal loro incipit a un polmone solo, quello maschile, come potrebbero non denunciare fiato corto e asfittico?
Permane in non pochi ambiti il pregiudizio, duro a morire, che la mente sia privilegio dei maschi: gli uomini la mente, le donne il cuore. Quanto lontani ancora dall’intuire che ci sia un pensare, non intriso di fredda razionalità, causa, questa, e non ultima, dell’aridità dei molti documenti ecclesiastici.
Quanto lontani ancora dall’intuire che c’è un pensare che conduce a sconfinamenti. Non sarà anche questo il pensare femminile? Ancora una volta lontani – quanto!- dalla lezione evangelica della donna dei cagnolini, che indusse Gesù, il Maestro, lui, l’unico Maestro, a “sconfinare”, il giorno in cui a lei, donna pagana, donna dell’oltre confine, oppose un rifiuto: “non è bene” le disse “gettare il pane ai cani”. “È vero” gli replicò la donna “ma anche i cagnolini si cibano delle briciole del pane che cadono dalla tavola dei loro padroni!.” Il Maestro imparò dalla donna. E quel giorno sconfinò. Sconfinò nel territorio dei cagnolini.
E già aveva sconfinato, secondo un altro vangelo, per via di una donna, sua madre, alle nozze in Cana di Galilea. Aveva sconfinato sulla sua ora. Alla madre che lo aveva invitato a fare qualcosa, lui aveva risposto: “Donna non è ancora giunta la mia ora”. La madre lo fece sconfinare sull’ora, in un giorno di nozze. E fu vino buono fino alla fine. E fu ora di ebbrezza. Ebbrezza comune.
A volte mi viene fatto di chiedermi se all’origine di tante immobilità ecclesiastiche, all’origine di una chiesa restia a sconfinare, non ci sia anche questa ritrosia a lasciarsi condurre dalle donne, così come il Rabbì di Nazaret si lasciò condurre dalla donna dei cagnolini e da sua madre. Vedo e soffro la distanza. La distanza dal vangelo.
Soffro a volte la sensazione, che nei fatti, al di là delle parole, nei loro confronti, nei confronti delle donne, permanga un pregiudizio, quel pregiudizio circa il puro e l’impuro, che Gesù scardinò quando rivendicò la purezza di ogni realtà vivente, attribuendo al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.
Soffro la sensazione che nella chiesa, al di là delle parole, la donna sia in qualche misura ancora sospettata, come la si ritenesse portatrice di qualcosa di imprevisto, di oscuro, come se la sua femminilità fosse abitata da una forza pericolosa. Non sarà anche per questo che le donne vengono per lo più celebrate dalla chiesa per la loro maternità, la donna madre, che non per la loro femminilità, la donna in quanto donna? In quanto donna, secondo il racconto della Genesi, e non in quanto madre, lei con l’uomo, immagine del Dio creatore! O non dipenderà anche da questo la fatica di concepire una sessualità che non sia legata a filo stretto con la procreazione, quasi che questa sia alla fine, lo si dica o no, la purificazione dell’inquietante femminile? Ancora una volta lontani dal Maestro che si ritrovò più volte a celebrare mani di donne che l’avevano unto e profumato e a criticare, senza giri di parole, l’accoglienza misurata e senza tenerezza degli uomini religiosi.
Nella casa, ancora a Betania, in giorni che già odoravano la Passione, ancora una donna colse, sola fra tutti, una verità più profonda di quel Rabbì, colse il segreto del suo cuore turbato. E lo unse di tenerezza. E la casa si riempì di profumo.
Dare spazio al femminile nella chiesa, a tutti i livelli, avrebbe come risultato, non ultimo nell’importanza, un dilagare di profumo nelle nostre comunità ecclesiali, che così spesso e così pesantemente, corrono il rischio dell’appiattimento nella figura burocratica della istituzione, comunità senza calore, senza profumo. Un profumo che non abita le verità gelide né le distanze, abita mani che toccano e ungono: “La verità è ciò che arde. La verità non è tanto nelle parole, ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio” (Christian Bobin). Ce lo ricordano le donne. Lo ricordano alla società e alla chiesa. E chi ha spazio faccia spazio.
[Pubblicato anche recentemente in gli SCOIATTOLI N.01 GENNAIO 2020 con il titolo LE DONNE NELLA CHIESA].